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Viviamo dentro iperoggetti: cosa possiamo fare per non restare impotenti?

Il concetto di iperoggetto ci aiuta a comprendere il mondo in cui siamo immersi, dalle crisi ambientali alle decisioni politiche che ci sovrastano
Viviamo dentro iperoggetti: cosa possiamo fare per non restare impotenti?
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C’è un termine che più di ogni altro, a mio modo di vedere, disegna la realtà in cui siamo immersi e quel termine è “iperoggetto”, coniato dal filosofo statunitense Timothy Morton.

Cos’è un iperoggetto? È una realtà di enormi dimensioni in cui siamo calati, di cui siamo – volenti o nolenti – partecipi. L’esempio più calzante è il riscaldamento globale, cui contribuiamo con quasi tutte le nostre azioni, dal tragitto in auto che compiamo ogni giorno, alla scatola di uova con involucro in plastica che acquistiamo in negozio. Oppure quando depositiamo i nostri soldi in banca e questi vengono utilizzati per finanziare grandi opere oppure pannelli solari a terra. Posto che la green economy non è nient’altro che il nuovo affare del grande capitale, con erosione di suolo e miniere aperte in ogni dove (La guerra dei metalli rari di Guillaume Pitron insegna).

Ma gli iperoggetti sono anche, molto concretamente, le politiche che passano sopra le nostre teste e di cui noi siamo partecipi-complici nella misura in cui varchiamo la soglia di una cabina elettorale. Pensiero che è emerso dal profondo in questo periodo in cui si parla di destinare nostri soldi per acquistare armi, oppure si progettano linee veloci o faraonici ponti, oppure nulla si fa per fermare l’ecocidio perpetrato da governi criminali, o si alimenta il divario tra miseri (“la povertà è una scelta, la miseria la si subisce”, Padre Cesare Falletti) e ricchi. E noi impotenti, seppure vibranti di rabbia ad assistere, rimpiangendo un passato in cui la salute della Terra era molto migliore di quella odierna.

È la retrotopia, coniata da Zygmunt Bauman. Solo che lui la riempiva di un significato negativo, sostenendo che impedisse di guardare al futuro in senso positivo. Io invece direi che è normale pensare ad un passato quasi autarchico, senza globalizzazione e iperoggetti, abbandonando la speranza, che non ha più diritto di albergare nella nostra epoca, in cui non c’è spazio neppure per il pessimismo, posto che esso lascia comunque spazio a un futuro diverso.

E dunque? Non fare nulla? Non proprio, c’è una strada percorribile: è denunciare nel nostro piccolo il mondo ingiusto in cui viviamo e cercare di contribuire il meno possibile al suo degrado.

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