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“Manipolatore, scaltro, lucido”, le motivazioni dei giudici sul ragazzino che sterminò la famiglia a Paderno Dugnano

L'allora 17enne, condannato a 20 anni, era "guidato da un pensiero stravagante" e "bizzarro", raggiungere "l'immortalità attraverso l'eliminazione della propria famiglia", ma ancora sotto il suo "controllo"
“Manipolatore, scaltro, lucido”, le motivazioni dei giudici sul ragazzino che sterminò la famiglia a Paderno Dugnano
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“Manipolatore”, “scaltro” e attratto “dall’ideologia fascista”, nazista e “omofoba”. Sono le valutazioni dei giudici che lo scorso 27 giugno hanno condannato a 20 anni il ragazzino che sterminò la sua famiglia Paderno Dugnano (Milano). L’allora 17enne era “guidato da un pensiero stravagante” e “bizzarro”, raggiungere “l’immortalità attraverso l’eliminazione della propria famiglia”, ma ancora sotto il suo “controllo”. Tanto che ha “distinto la realtà dall’immaginazione” e “ha lucidamente programmato, attuato, variato secondo il bisogno le proprie azioni, prima, durante e dopo” scrive il Tribunale per i minorenni nel motivare la pena. Non riconosciuto dal giudice il vizio parziale di mente accertato dai periti.

Nelle 51 pagine di motivazioni, firmate dalla giudice Paola Ghezzi, viene ricostruita – anche con dichiarazioni e interrogatori del ragazzo, che ora ha quasi 19 anni, e con testimonianze di altri suoi familiari – la strage avvenuta nella villetta di quella che tutti ritenevano, come si legge, una “famiglia normale”. E che è sempre rimasta senza un vero movente. Lo psichiatra Franco Martelli nella perizia ha scritto che il ragazzo viveva tra realtà e “fantasia”, che voleva rifugiarsi in un mondo fantastico, che lui chiamava della “immortalità”, e per raggiungerlo nella sua mente era convinto di doversi liberare di tutti gli affetti. La giudice nella sentenza evidenzia il fatto che il perito ha dato conto di “aspetti personologici disfunzionali quali un elevato grado di alessitimia” e della “divisione psichica della personalità” e “persistenza della fantasia-progetto”.

Tuttavia, scrive, “dall’esame del funzionamento mentale di Riccardo operato attraverso la descrizione delle sue condotte poste in essere durante la commissione dei fatti ed anche successivamente, non si ravvede alcuna evidenza di una condizione psichica di instabilità e di in governabilità“. E, “certamente – si legge ancora – nell’evenienza criminale debbono aver avuto peso potenti stati emotivi, una grossa dose di rabbia ed odio narcisistici, accumulati ad ogni frustrazione, che hanno fatto sì che l’atto si compisse con cotanta aggressività espressa”. Per la giudice, “lo si desume dalle modalità particolarmente spietate dell’esecuzione: per quanto si possa essere inesperti nell’uccidere, un tale accanimento e varietà delle lesioni (soprattutto nei confronti del fratello e della madre) non può non avere come ‘benzina’ tali sentimenti“. Ad ogni modo, l’imputato, stando alla sentenza, “ha mantenuto lo stesso livello di organizzazione mentale durante le diverse fasi del delitto, non apparendo in alcun momento dissociato o soggetto ad alcuno scompenso rispetto alle sue intenzioni, che erano quelle di eliminare i familiari, secondo un piano ben organizzato, frutto dell’intelligenza di condotta dimostrata ed applicata”.

I giudici ritengono l’imputato un “manipolatore” che ha progettato gli omicidi “nei minimi dettagli”, che ha manifestato “scaltrezza” nel “tendere la trappola per uccidere i genitori nella sua cameretta e non nella camera matrimoniale”, dopo aver già colpito il fratellino. E che ha agito in modo “sconcertante” colpendo tutti e tre in “modo cruento”, infliggendo loro “numerosissime coltellate, infierendo sui loro corpi esanimi ed anche colpendo alle spalle il padre, dopo aver dato l’impressione di volersi fermare successivamente all’aggressione al fratello ed alla madre”.
Pur applicando la “diminuente della minore età e le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza su tutte le circostanze aggravanti”, tra cui la premeditazione, la giudice ha applicato per il giovane la pena massima in abbreviato di 20 anni, non riconoscendo il vizio parziale di mente. Nella sentenza si mette in luce anche “la condotta tenuta immediatamente dopo il delitto” orientata “ad eludere le investigazioni per garantirsi l’impunità: dapprima il piano prevedeva di far ricadere la colpa sulla madre, poi sul padre ed infine su di sé, ma soltanto dopo aver avuto la certezza, attraverso il nonno, che gli investigatori non avessero creduto alla versione fornita in prima battuta ai soccorritori”. Il giudice ricorda anche, come era già emerso, che dall’analisi dei dispositivi del ragazzo erano emerse immagini, come la foto del Mein Kampf, o “esternazioni di pensiero comprovanti la sua inclinazione verso l’ideologia fascista”, nazista e “omofoba”.

Nella sentenza vengono riportate pure le prime parole che il ragazzo disse al nonno, prima cercando di sostenere la versione che fosse stato il padre ad uccidere e che lui sarebbe intervenuto “a difesa”, e poi ammettendo per la prima volta: “Volevo essere immortale (…) staccarmi dalla famiglia e tutto, avrei dovuto fare un certo percorso”. E poi ancora negli interrogatori: “mi sarebbe piaciuto vivere diciamo in libertà, senza vincoli legati alla famiglia”. Analizzando atti e dichiarazioni la giudice chiarisce che L’imputato “ha maturato il proposito di uccidere i familiari quantomeno il giorno precedente ai fatti”. La sera precedente, però, “non era ‘abbastanza convinto’, ed è solo il permanere di quel pensiero in lui che ha consentito alla sua decisione di rafforzarsi”. E nel tempo “intercorso tra le prime dichiarazioni rese e le successive, Riccardo ha potuto elaborare i fatti e quanto già dichiarato, così da predisporre un’adeguata strategia difensiva”. Nella “pianificazione del delitto, per poter andare esente da responsabilità” ha usato “una maglietta nera tagliata per coprire l’impugnatura del coltello, in modo da non lasciare impronte”. E ha “atteso attentamente che il fratello fosse effettivamente addormentato per dare inizio alla strage”. Al pm della strage disse anche così: “Non la reputavo come una cosa diciamo con grave impatto”, mostrando tutta la sua “freddezza emotiva”.

“Ovviamente non condivido questa motivazione. Il giudice non ha preso atto della concreta incidenza e del nesso di causalità che c’è tra la patologia di Riccardo ed il reato commesso” spiega l’avvocato Amedeo Rizza, che presenterà ricorso in appello. Le considerazioni del difensore partono dal fatto che proprio in una perizia, disposta dal gip nel corso del procedimento, era stato accertato un vizio parziale di mente del ragazzo e, dunque, una capacità di intendere e di volere parzialmente scemata al momento dei fatti. Vizio parziale non riconosciuto nel verdetto. Il giudice, spiega il difensore, “pur riconoscendo un disturbo psichiatrico, un’idea dominante nel raggiungere il progetto dell’immortalità”, di cui ha parlato il ragazzo che a ottobre compirà 19 anni, e “la necessità di cure” per lui, “ha ritenuto che, visto il comportamento avuto dal minore prima, durante e dopo l’omicidio, tale disturbo riconosciuto non ha inciso nella capacità del volere”. E in relazione alla pena, “pur riconoscendo la necessità di concedere le attenuanti generiche con criterio di prevalenza per mitigarla”, sempre il giudice “alla fine ha dato il massimo” previsto nei procedimenti minorili con rito abbreviato, ossia con lo sconto di un terzo. Dopo il ricorso ci sarà un processo d’appello.

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