Chi compra prodotti dai brand di lusso vuole trasparenza: le storie patinate sui social non bastano
Negli ultimi mesi, su TikTok e altre piattaforme social hanno iniziato a circolare video che mostrano presunte fabbriche cinesi produttrici di borse di lusso. In questi contenuti virali alcuni operatori sostengono di realizzare articoli identici a quelli di brand come Hermès, Chanel o Louis Vuitton, venduti a una frazione del prezzo ufficiale. L’impatto è stato immediato: milioni di visualizzazioni che hanno alimentato un generale scetticismo sull’autenticità dei marchi europei. I brand non si sono fatti attendere e hanno smentito con fermezza, spiegando che quelle raffigurate nei video erano produzioni contraffatte destinate al mercato del falso.
Questa vicenda, che a prima vista può sembrare quasi un aneddoto di costume, in realtà mette in luce un tema sempre più centrale: il fascino del “dietro le quinte” e il bisogno crescente di trasparenza. In altre parole, i consumatori vogliono capire come e dove nasce un prodotto, quali mani lo realizzano, quali valori sostiene il brand. Non è solo una curiosità astratta: sentono di averne il diritto. Ma come distinguere tra informazione attendibile e narrazione social costruita ad arte?
In questo momento storico in cui il mercato della contraffazione ha un peso enorme, chi ne fa parte ha tutto l’interesse a insinuare il dubbio che il lusso sia un concetto vuoto, una narrazione che – facendo leva sul fascino del marchio – impone un prezzo arbitrario, scollegato dalla realtà. Anche nella mia personale esperienza mi è capitato spesso di confrontarmi con consumatori che – in perfetta buona fede – sono convinti del fatto che non valga la pena investire per acquistare un capo o un accessorio originale, perché “tanto la qualità è la stessa”. È qui che il confine tra realtà e percezione si fa pericolosamente labile.
Cerchiamo quindi di fare un po’ d’ordine. È vero che, tipicamente, i grandi marchi della moda delocalizzano la loro produzione affidandosi a fornitori geograficamente molto lontani. Ma è vero anche che, quando si parla di alta gamma, le produzioni avvengono per la maggior parte in Europa e in Italia. E il marchio, se è responsabile, cerca di generare impatti positivi sui territori in cui opera. Ha diversi modi per farlo, dalla tutela delle condizioni di lavoro fino alla riduzione dei consumi idrici, dell’uso di sostanze chimiche tossiche e nocive, delle emissioni in atmosfera. Da anni mi occupo proprio di questo: di elaborare soluzioni e tecnologie per mappare questi e altri dati in modo attendibile, connettendo brand e filiera.
Non sto dicendo che tutti i brand siano irreprensibili: sarei ingenua a pensarlo. Siamo alle prese con un percorso in evoluzione che alterna progressi e passi falsi. Ma pensare che la reputazione di un brand e il lavoro di intere filiere possano essere messi in discussione da una campagna virale fa riflettere su quanto servano sistemi solidi di trasparenza che mettano in risalto chi produce in modo serio ed etico. Non a caso i brand hanno reagito subito, tra dichiarazioni ufficiali ufficiali sulle sedi produttive (Hermès in Francia, Prada in Italia, ecc.), visite virtuali negli atelier, storytelling sugli artigiani e un rafforzamento delle azioni legali contro la contraffazione. Ma resta il fatto che, nel lusso come in altri settori, la percezione è tanto importante quanto la realtà: fake news ben congegnate possono erodere in poche settimane gli investimenti in posizionamento che sono stati costruiti nel corso degli anni.
Da questi episodi emerge con forza che i consumatori contemporanei non si accontentano di un logo o di un’etichetta, ma esigono prove concrete di autenticità. Due strumenti possono fare davvero la differenza: la due diligence di filiera, che consente di verificare, monitorare e comunicare la responsabilità sociale e ambientale lungo tutta la catena di fornitura, e il passaporto digitale di prodotto, che racconta in modo trasparente l’origine, i materiali, le certificazioni e i criteri di sostenibilità adottati per ogni singolo articolo.
Con Ympact, il gruppo che ho contribuito a fondare, mi occupo proprio di spingere l’adozione di larga scala di questi strumenti. Il che va nell’interesse del pianeta, dei lavoratori, dei consumatori ma – è bene sottolinearlo – anche delle aziende. Quest’ondata di video virali è l’ennesima dimostrazione del fatto che, anche nel mercato del lusso, la trasparenza è ormai parte integrante del valore del prodotto. Chi saprà dimostrarla, con serietà e coerenza, ci guadagnerà in reputazione e competitività sul lungo periodo.
Ecco perché la normativa europea insiste sulla costruzione di passaporti digitali di prodotto che rendano accessibili informazioni autentiche: è un passaggio che non riguarda più solo il posizionamento di mercato, ma la sostanza del modello produttivo. I brand capaci di raccontare con chiarezza la propria filiera si distingueranno facilmente da quelli che si limitano a storie patinate – e qui la tecnologia sarà decisiva per garantire la veridicità delle informazioni.