Le agenzie di rating fanno esultare Meloni. La ricetta è la solita: tagli alla spesa e tasse
Sembra che le tre società internazionali di rating stiano dando qualche soddisfazione al ministro Giorgetti in tema di finanza pubblica, alzando un poco il giudizio sull’Italia. Siamo dunque fuori dal pericolo di una tempesta finanziaria? Per capire il problema dobbiamo guardare innanzitutto al punto di partenza.
L’Italia si trova, ancora oggi, molto in fondo nella classifica dei debitori. I giudizi delle tre agenzie di rating sono un po’ diversificati, ma tutti ci classificano nella fascia B e molto lontani dalla fascia A. La più severa è ancora Moody’s che ci ha assegnato da molto tempo il magrissimo giudizio Baa3. Tanto per fare qualche esempio, siamo molto al di sotto della Francia con il suo Aa3, e in compagnia della Grecia. Si tratta di un giudizio molto pericoloso per i nostri titoli pubblici perché al di sotto troviamo solo gli investimenti speculativi.
La distinzione è importante perché la Banca Centrale non può comprare questi titoli speculativi, cioè molto rischiosi, come è accaduto per la Grecia. Oggi più di un quarto del debito italiano è in mano della Bce che, in barba ad ogni fantasia sovranista della lira, ci ha salvato dalla catastrofe finanziaria. Siamo ancora in una zona molto critica, al di là di ogni effimero entusiasmo governativo.
Il leggero vento di bonaccia di cui le tre parche del credito internazionale ci hanno fatto dono da cosa dipende? Direi che, a prima vista e leggendo i vari giudizi, la ricetta è sempre la solita. Siamo ancora nel caso ben studiato delle infauste due T, cioè della politica dei tagli di spesa e dell’aumento delle tasse. Il precario equilibrio dei nostri conti pubblici è stato conseguito grazie all’aumento della tassazione e a una riduzione della spesa pubblica.
Sul primo punto i dati ufficiali sono molto chiari. In questi anni il taglio delle tasse molte volte promesso da parte del governo Meloni non c’è stato, e siamo andati nella direzione opposta. I numeri dell’Istat ci dicono che nel 2024 la pressione fiscale in Italia ha raggiunto il 42,6% del Pil, in aumento di 1,2 punti percentuali rispetto al 41,4% del 2023. Una crescita dunque notevole. Le ragioni di questo aumento vanno attribuite all’inflazione e, in misura minore, all’incremento degli occupati. Si sa che l’aumento dei prezzi è una manna per il risanamento dei conti pubblici.
Dalle statistiche del Mef si ricava che tra il 2023 e il 2024 le entrate tributarie sono aumentate di ben 40 miliardi, più di una finanziaria. Questo effetto fiscale di distorsione a favore dello Stato è ben noto e si chiama fiscal drag, in base al quale il carico fiscale aumenta anche se i redditi reali si riducono. Un tempo la politica sarebbe intervenuta per mitigare questo esito molto deleterio per i contribuenti, ma ora invece è del tutto dimenticato e anzi benvenuto.
Accanto all’aumento delle tasse, la seconda parte della ricetta richiede di tagliare la spesa pubblica. Siamo entrati in una nuova fase della ben nota spending review. Una riduzione di spesa che il Governo ha fatto sua, accettando le clausole del nuovo Patto di Stabilità che prevedono una crescita molto modesta, e certamente al di sotto dell’inflazione, della spesa pubblica complessiva. Tanto per fare qualche esempio, la finanziaria dell’anno scorso ha tagliato qualche miliardo ai Comuni e ha ridotto notevolmente le spese per contrastare il cambiamento climatico.
In realtà, a ben guardare, tutte le principali voci della spesa pubblica hanno mostrato il segno meno in termini reali, cioè al netto dell’inflazione, e qualche volta anche in termini anche nominali. Questi tagli poi dovranno essere rinnovati ogni anno e daranno origine alle solite baruffe politiche settembrine, in attesa della new entry, le nuove spese militari.
Quindi, al di là della solita retorica governativa, anche la premier Meloni sta recitando il copione tradizionale dell’austerità economica, contando, per far quadrare i conti, sull’aumento delle tasse e sulla riduzione della spesa pubblica. Né poteva fare diversamente, dato lo stato miserabile delle nostre finanze pubbliche. I meri fatti sbugiardano le narrazioni governative. Anche Meloni si prende la medaglia di premier delle tasse. Per ora la strategia delle due T sembra aver calmato i giudici internazionali del nostro debito pubblico. Tutto a posto allora per il futuro? Non sarei così ottimista.
La strategia delle due T in una certa misura è probabilmente inevitabile per un Paese così malamente indebitato come il nostro. Il problema, economico ma anche politico, è che i tagli e le tasse non colpiscono tutti i cittadini-contribuenti allo stesso modo. Per uscire dalla zona bassa della classifica del credito internazionale in cui siamo sprofondati occorre agire diversamente, senza colpire sempre i salari, i consumi o i servizi pubblici, come fa ora anche Meloni. Ci sono, come è noto, anche nel nostro Paese ampie aree di privilegio fiscale, come quelle della finanza o dei patrimoni accumulati, che danno un contributo modesto, o nullo, al risanamento dei contri pubblici. Per non parlare, ovviamente, della lotta evasione fiscale che con Meloni è scomparsa colpevolmente dai radar dell’azione politica.
Cominciare un vero risanamento dei conti pubblici partendo dalla finanza potrebbe essere un buon inizio per una diversa politica economica, realmente orientata al benessere dei cittadini. Per ora le agenzie di rating ci hanno collocato, anche se a fatica, in serie B, premiando passivamente il conservatorismo più retrivo basato sui tagli della spesa e sulle nuove tasse (da inflazione). L’esperienza storica dimostra che questa ricetta non ha mai funzionato nel medio periodo, aggravando i problemi che pretendeva invece di risolvere.
Non vorrei che inseguendo questa chimera neoliberista delle due T invece di risalire in serie A, sprofondassimo in serie C. A qualcuno a noi vicino è già successo.