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Il caso Porsche, tra calo vendite e tagli. Margini dimezzati e rischi per l’occupazione

Dazi, mercato cinese debole, transizione elettrica al palo e costi imprevisti spingono il marchio a rivedere i piani futuri
Il caso Porsche, tra calo vendite e tagli. Margini dimezzati e rischi per l’occupazione
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Per la prima volta nel 2015 Porsche aveva superato le 200.000 auto vendute l’anno. Poi ha macinato record in serie fino a sfondare la soglia dei 300.000 esemplari nel 2021 e contabilizzare il primato assoluto nel 2023 con oltre 320.000 targhe. Stuzzicati da questi successi, a Stoccarda hanno occhieggiato addirittura un Ebit del 20%, obiettivo peraltro indicato ancora a lungo termine dal Ceo del marchio e del gruppo Volkswagen Oliver Blume nel corso della presentazione dell’ultimo bilancio. I tempi per raggiungerlo erano già stati dilatati e, con le ultime correzioni, lo saranno ancora di più.

Già nel 2024 il margine, comunque ragguardevole, era sceso dal 18 al 14,1%, e per il 2025 ne è atteso uno praticamente dimezzato, compreso tra il 6,5 e l’8,5%. Nel primo semestre, il costruttore che costituisce la “cassaforte del gruppo” (con il 3% dei volumi garantisce il 30% degli utili) ha consegnato poco meno di 146.500 auto, con una flessione del 6% rispetto allo stesso periodo di un anno fa. Non solo la Germania (-23%), ma soprattutto la Cina (-28%) ha voltato le spalle alla Porsche, che con i dazi di Trump rischia anche in Nord America, dove tra gennaio e giugno aveva contabilizzato ancora una crescita del 10% con quasi 43.600 immatricolazioni.

Blume l’aveva già fatto intendere in occasione della conferenza di bilancio: per mantenere i conti in ordine sarebbero stati sacrificati posti di lavoro e rimodulata l’offerta, con un prolungamento di quella “convenzionale”. Perché malgrado l’aggiornamento, anche in termini di autonomia, l’elettrica Taycan e le sue declinazioni Sport e Cross Turismo non hanno ancora fatto breccia tra gli appassionati del marchio, che resistono anche al fascino della Macan a zero emissioni, che con il motore a combustione era la top seller. Stoccarda sta correndo ai ripari e ragiona allo sviluppo di soluzioni ibride a combustione per non perdere clienti (che temono di veder sprofondare il valore dell’usato elettrico) ed evitare di incorrere in sanzioni sullo sforamento delle soglie di CO2.

La sintesi delle difficoltà, che Porsche condivide peraltro con molte altre case che hanno margini di gran lunga inferiori, sono in una azzeccatissima riflessione dell’ex capo delle finanze Lutz Meschke: “In ultima analisi, il lusso è definito dalla stabilità del valore di un prodotto”.

Mentre lavora per garantirla al prodotto, Blume anticipa che dopo l’estate per salvaguardare la redditività (“i risultati attuali non sono il nostro obiettivo. Abbiamo ambizioni molto superiori”) interverrà con una seconda operazione strutturale. In una lettera visionata dalla testata specializzata Automobilwoche, il Ceo ha chiarito che l’azienda è alle prese con “enormi sfide” malgrado una gamma completamente rinnovata. Il problema è il contesto internazionale, a cominciare da quello cinese, ma anche l’indebolimento del dollaro e le politiche di Trump hanno cominciato ad avere ripercussioni.

La stessa rimodulazione dell’offerta costringe Porsche a investimenti non previsti, che si aggiungono agli 800 milioni di euro che costerà la chiusura dell’operazione Cellforce per la produzione di celle per le batterie delle auto elettriche. Già in febbraio era stata anticipata la soppressione di 1.900 posti accompagnata dalla successiva mancata proroga di 2.000 contratti a termine. Quale sia l’ulteriore sacrificio imposto ai lavoratori non è dato sapere, ma in Germania Porsche conta 23.600 addetti. Secondo la VDA, la potente associazione della filiera automobilistica tedesca, con la scadenza del 2035 (lo stop ai motori endotermici) è a rischio il 20% dell’occupazione del comparto: se la stessa percentuale valesse anche per il costruttore premium di Stoccarda sarebbero 5.000 posti.

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