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Cent’anni fa usciva ‘Mein Kampf’, il punto di partenza della spietata violenza nazista

Il 18 luglio 1925 arrivò nelle librerie tedesche il testo di Adolf Hitler. Di modesto successo nei primi anni, il libro avrebbe venduto entro il 1944 circa 10 milioni di copie
Cent’anni fa usciva ‘Mein Kampf’, il punto di partenza della spietata violenza nazista
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Il 18 luglio 1925 usciva nelle librerie Mein Kampf, di Adolf Hitler, il testo fondatore dell’ideologia nazionalsocialista. Di modesto successo nei primi anni, il libro avrebbe venduto entro il 1944 circa 10 milioni di copie, la stragrande maggioranza delle quali, però, dopo il 1933, anno della salita al potere del futuro Fuhrer. Il libro fu elaborato da Hitler nel giro di pochi mesi, mentre era in carcere per il tentato golpe del 1923 a Monaco, ma fu scritto materialmente in gran parte, sotto dettatura, dal suo seguace Rudolf Hess.

Mein kampf rappresenta il tipico caso del testo che fa storia, anche se pochi, probabilmente pochissimi, lo hanno letto. Lo stile è infatti estremamente contorto, e il contenuto ripetitivo ed enfatico, a volte iperbolico, pieno di continue digressioni, tanto da scoraggiare anche il lettore più motivato. Eppure, il tono apocalittico, la denuncia della presenza di forze oscure all’opera per distruggere il popolo tedesco – anzi, la razza ariana – riuscirono ad esercitare un notevole fascino, come peraltro accade sempre alle teorie complottiste nei momenti di gravissima crisi come quella che aveva colpito la Germania dopo il crollo di Wall Street nel 1929. Una crisi che aveva provocato una devastante ondata di disoccupazione, un notevole impoverimento sia dei ceti popolari che della piccola e media borghesia, e una diffusa rabbia, che avrebbe spinto molti a farsi sedurre dalla promessa del «Nuovo ordine» magnificato da Hitler.

Il contenuto del libro sarebbe però divenuto patrimonio comune di un intero popolo perché sintetizzato e semplificato nei discorsi del Fuhrer e dei suoi seguaci, negli opuscoli distribuiti dal partito, nella stampa, nelle trasmissioni radiofoniche, nel cinema.

Uno dei pilastri principali su cui si regge il volume è l’idea che lo Stato non è «un fine, ma un mezzo», perché ciò che conta è in realtà il valore della «nazione», ovvero della «razza». È la qualità biologica e intellettuale della razza a determinare l’«esistenza di una umanità superiore»; senza questa premessa, lo Stato non può realizzare nulla di grande.

È questo il punto di partenza della spietata violenza che il nazismo metterà in atto. La purezza della razza ariana, dice Hitler, è ormai andata perduta, ma si può tornare indietro: si possono cioè creare le condizioni perché i tedeschi e i popoli affini ritrovino la purezza del passato. Occorre quindi sottomettere i popoli “inferiori” e utilizzarli a vantaggio di quello superiore, gli ariani. Occorre conquistare lo spazio vitale (lebensraum) necessario per rendere il popolo tedesco autonomo dal punto di vista alimentare, ma anche per metterlo di nuovo in contatto con la natura. Solo così potrà ritrovare vitalità e fecondità, che la società moderna tende a spegnere a causa della sua snervante frenesia, della vita anonima e povera di relazioni umane, del materialismo, del suo sollecitare l’individuo a pensare solo a se stesso e ai propri vantaggi.

È in questa prospettiva che il leader nazista immagina l’espansione a est e – come chiarirà più tardi – l’eliminazione di 30 milioni di slavi per far posto a coloni tedeschi. È nella stessa prospettiva che suggerisce di trovare una «soluzione finale» alla questione ebraica (anche se nel libro non chiarisce mai cosa voglia veramente dire). Ma queste convinzioni apriranno la porta anche alla cosiddetta Operazione T4, quella che dal 1939 avrebbe iniziato a eliminare le «vite indegne di essere vissute», le «zavorre», i «gusci vuoti», gli «asociali». Infatti, scriveva: «basterebbe impedire per sei secoli la capacità e la facoltà di procreare nei degenerati di corpo e nei malati di mente, per liberare l’umanità da un’immensa sventura e per condurla a uno stato di sanità oggi quasi inconcepibile».

Sarebbe stato proprio a partire da queste concezioni che nel giro di alcuni anni si sarebbe passati dall’eliminazione dei neonati tedeschi a quella degli adulti considerati portatori di malattie ereditarie, e pertanto ritenuti inutili «zavorre». Poi, una volta scoppiata la guerra, sarebbe toccata agli ebrei, ai Rom, ai Sinti, ma anche a tutti quei tedeschi ariani che avevano la sola colpa di essere considerati un ostacolo, perché sottraevano spazio e cure ai soldati feriti. Una travolgente spirale che avrebbe finito con il coinvolgere persino le donne anziane rimaste sole e senza alcun riferimento a causa della distruzione delle città sottoposte ai bombardamenti anglo-americani.

Oggi, di fronte a quello che nessuno di noi fino a poco tempo fa poteva immaginare, guerre feroci in Europa o ai suoi confini, e civili innocenti diventati bersagli privilegiati della violenza bellica, non possiamo ignorare questa lezione: la violenza è inevitabilmente un piano inclinato, sul quale diventa difficilissimo fermarsi una volta che lo si cominci a percorrere, perché si assume, per l’appunto, un’«inclinazione», ovvero la tendenza a scivolare sempre più in basso. Messo in moto il meccanismo delle discriminazioni, della divisione in «superiori» e «inferiori», in meritevoli e non meritevoli, si avvia necessariamente una spirale che si avvita su se stessa, fino a rischiare di produrre l’inimmaginabile.

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