Lo sgangherato ‘Superman’ e gli altri: Soderbergh, Ortega e Tilda Switon… È la fine del mondo!
Sempre bello cominciare una storia o un articolo dalla fine. Come The End, dramma claustrofobico e post-apocalittico su una ricca famigliola chiusa da 20 anni nel suo ampio bunker squisitamente arredato. L’arrivo di una ragazza dall’esterno smuoverà le vite dei protagonisti. Joshua Oppenheimer mette in scena personaggi che sintetizzano la società occidentale con i suoi estremi di elitarismo capitalistico nepotista da una parte, e di sottomessa compiacenza servile dall’altra. Innesta al dramma momenti musical, un po’ alla Emilia Perez, ma solo nei momenti di espressione emotiva libera dei personaggi, e utilizza come location cave di sale siciliane.
Tilda Swinton è grande matrona a note borghesi in questa casa/mondo che sopravvive all’apocalisse ambientale quanto ai sensi di colpa, mentre al suo fianco un Michael Shannen padre irresponsabile in eterno golfino fronteggia il figlio impetuoso oramai cresciuto George McKay. Film originalissimo e ipnotico, potrebbe diventare anche un’ottima piéce teatrale.
Con Presence cerca di riscrivere l’horror a modo suo Steven Soderbergh, o così dice il marketing, e ci son cascati in molti, pare. Invece riesce a costruire una solida ghost-story thrillerica basata su silenzi e spazi di questa casa dove una famiglia americana si è appena trasferita. Incipit classico da morire, più tensioni varie tra figli adolescenti e genitori in crisi. Strani spostamenti di cose, venticelli e presenze d’appartamento ne abbiamo visti tanti. Ma qui il regista ha il pregio di impostare tanti utili piani sequenza spezzati a nero, e soprattutto sembra restio ad inquadrare bene in faccia i personaggi, il ché offre una forte sensazione di un qualcosa che sfugge, ma verrà dichiarato alla fine. Giusto nel linguaggio sullo sguardo quindi abbiamo qualche novità, ma i temi realmente portanti sono ritriti, e il solo nominarli sarebbe esso stesso spoiler. Dal 24 luglio è al cinema.
Spostandoci in Argentina, Remo Manfredini è un grande fantino con la mania autodistruttiva di droghe e alcol. La sua ultima corsa però lo porterà ad una nuova identità da botta in testa. Tra donne traditrici o innamorate, scagnozzi del boss e una pelliccetta indossata con aria sostenuta, El Jockey di Luis Ortega porta con sé una visione colorata e mordace in stile Kaurismaki. Sarà che i suoi personaggi senza futuro sono illuminati dalla fotografia di Timo Salminen, storico d.o.p. del regista finlandese. Questa black comedy decadente, folkloristica e anni ’90, ha come istrione assoluto Nahuel Pérez Biscayart, attore prodigioso e dinoccolato con quella faccia da Valentino Rossi, ché sarebbe perfetto per un suo biopic. Ma non perdiamoci in cinesogni, perché si vola molto alto in questo mondo surreale di pallottole, fantini e amori sensuali, si sghignazza a denti stretti e con intelligenza, ma la buona opportunità, grazie al non-doppiaggio, sarà quella di guardarlo per tutti in spagnolo, sub ita.
E alla fine arriva lui, Superman. Certo, secondo James Gunn era meglio guardare al kryptoniano dopo 3 anni dall’inizio della sua attività, quindi perdiamo pure tutta la crescita di Lex Luthor. La colatura del villain, non d’alici, riduce Nicolas Hoult a bad boy narcisista e privo di charme e humour. E questo è un problema. Che parte dalla scrittura, tutta di Gunn e a monte dal connubio forse castrante di Warner e DC. Certo, rifare il supereroe per antonomasia con originalità e attrattiva era un’impresa. Lui ce la sta facendo con i numeri. Finora in Italia ha fatto 2 milioni di euro al box office, ma in tutto il mondo 217 milioni di dollari su un budget di 225 mln.
Però rispetto al pastiche ci troviamo di fronte a un circo fatto di tanta confusione intervallata da ottime trovate. Per esempio la tenerezza dei Kent e la complicità Lois/Superman funzionano bene, ma Lanterna Verde e i suoi due aiutanti, supereroi minori del mondo DC presentati qui senza arte né parte sono un trio inutile e vuoto. Per non parlare dell’insopportabile cagnolino Krypto. Accettabile è il parallelismo con le situazioni belliche in Medioriente e Ucraina, con una serie di doppigiochi, ma certe sequenze con mostri giganti risultano forzate, altre di un lirismo ottimo per Superman ma spesso girati come spottoni più che un film.
Con i Guardiani della Galassia funzionò tutto meglio non tanto per la coralità, ma perché forse l’immaginario collettivo era scevro da quei characters, inoltre ogni personaggio aveva più corpo emotivo nella narrazione. Qui invece molti personaggi non hanno spessore, e poi sembra che a guardare la riproposizione di un classico, abbiamo più aspettative e pregiudizi che effetti speciali. L’intrattenimento c’è, ma il tutto viene su sgangherato. E non è assolutamente colpa del buon David Corenswet. Vedremo come si estenderà questo nuovo universo. #PEACE