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Albatross di Giulio Base è asfittico e soffocante, al di là delle dispute politiche

Questo film l’ha voluto il governo Meloni? Ovvio, anche un bambino capirebbe che si tratta di un tentativo di revisionismo
Albatross di Giulio Base è asfittico e soffocante, al di là delle dispute politiche
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Giulio Base ha avuto coraggio a girare Albatross. E gli va riconosciuto. Sapeva che sarebbe stato attaccato. Non mi importano le prevedibili chiacchiere da salotto che il film ha scatenato e che, in certi casi, si avvicinano pericolosamente alla censura. Mi interessa invece la qualità o la non qualità di un film e mi sento di affermare che Albatross è un film asfittico, quasi soffocante per la sua povertà visiva.

Manca di un ampio respiro, è televisivo e privo di un minimo afflato cinematografico: ergo, la tragica vicenda del neofascista Almerigo Grilz, reporter di guerra triestino che, con Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fondò nel 1983 l’agenzia di stampa che porta il nome del felice uccello urlatore dall’apertura d’ali più grande al mondo, metafora dell’immensità, viene invece resa dal regista con schemi tecnicamente stringati. Penso agli scontri del ’76, con due fazioni che si affrontano: da una parte i neofascisti, capeggiati da Grilz, già dirigente del Fronte della Gioventù, e dall’altra i post-sessantottini della sinistra il cui leader è Vito Ferrari, ispirato, pur con qualche licenza geo-cronologica, a Toni Capuozzo, ex giornalista di Lotta Continua e poi inviato di guerra, che ho avuto il piacere di conoscere a Sarajevo nel ’94.

Ebbene, si tratta di uno scontro da burletta: i due ‘capi’ si avvinghiano, sembra un incontro di lotta greco-romana, neppure gli occhiali si spostano dai loro nasi e lo stesso avviene per gli altri contendenti: sembra d’essere sul tatami di una palestra non in una piazza infuocata degli anni 70 (riguardatevi quelli girati da Bertolucci in The Dreamers…). Arriva ‘la madama’ e Grilz (interpretato da Francesco Centorame, in sala anche con Come fratelli di Antonio Padovan, innocente storiella di due papà single) viene impensabilmente (per chi ha vissuto quegli anni) aiutato a fuggire proprio dal suo rivale Ferrari-Capuozzo (Michele Favaro dall’aspetto di mite secchione).

Con una manovra alla Giulietta e Romeo l’uno, infatti, in nome di un improvviso attacco di amicizia virile, tende la mano all’altro per aiutarlo ad arrampicarsi su una scala, anche se Grilz viene comunque acciuffato dai poliziotti e rinchiuso al commissariato in una cella che pare quella dello sceriffo di un film western.

Ferrari-Capuozzo, invece, lavora a Radio Popolare Trieste. Ed ecco un flashback di una quarantina d’anni: Ferrari-Capuozzo (il sempre grande Giancarlo Giannini) lo ritroviamo in treno insieme con la commossa moglie (Gianna Paola Scaffidi) che da giovinetta (Linda Pani, ‘professoressa’ de L’Eredità su RaiUno), pur figlia di un giornalaio di sinistra, era stata la fidanzata di Grilz (c’è anche un tocco di telenovela…).

Giannini deve raggiungere Trieste per partecipare a una riunione fra giornalisti locali e decidere se conferire una targa a Grilz che è morto il 19 maggio 1987, a 34 anni, in Mozambico dov’è sepolto. E sarà il solo a dire sì. Spararono a Grilz mentre riprendeva uno scontro fra la Resistenza Nazionale del Mozambico, appoggiata dal Sudafrica e pare anche dalla Cia, al cui seguito era il reporter triestino, e i governativi di ispirazione socialista del Fronte di Liberazione che, allora suoi nemici e oggi al governo, hanno dimostrato più umanità degli italiani, dichiarando, pochi mesi fa: “Il governo mozambicano e italiano dovrebbero cercare insieme iniziative per non dimenticarlo”.

Le nefandezze commesse dal giovane Grilz neofascista non le dimentico, ma, nel contempo, la sua successiva attività di giornalista inviato in guerre di mezzo mondo e i suoi reportage acquistati dai maggiori network internazionali, comunque la si pensi, sono eccezionali.

Giulio Base è un bravo regista (e attore) dall’ottimo curriculum e certo ha fatto di meglio con alcuni dei suoi precedenti 14 film. Penso, ad esempio, a Bar Giuseppe o À la Recherche e, a proposito di Albatross, si è autodefinito “un partigiano della riconciliazione”. Dubito ci sia riuscito: basta dare un’occhiata ai titoli sia dei giornaloni della sinistra che dei giornaletti della destra. Albatross l’ha voluto il governo Meloni? Ovvio, anche un bambino delle elementari capirebbe che si tratta di un tentativo di revisionismo, ma questo non deve inficiare un’analisi filmica puntuale.

Patetiche le scene di guerra in Mozambico girate in Puglia: campi strettissimi, per evitare il rischio di inquadrare qualche masseria del foggiano. Si salvano solo alcune immagini di repertorio sui titoli di coda che meglio avrebbero funzionato nel corso del film.

La verità è che da tempo lo ‘specifico filmico’, come lo chiamavamo negli anni 70, poco interessa a buona parte della critica che preferisce i tavoli delle dispute ideologiche o le sterili e trite polemiche sul Tax Credit, quando ben sappiamo che, dall’articolo 28 in poi, è stato un profluvio di finanziamenti, con governi di sinistra e di destra, a film mai usciti in sala o ai quali, magari in agosto, hanno assistito soltanto i parenti del produttore. E pensare che Rossellini andava a cercarsi in giro da solo la pellicola per ultimare un capolavoro come Roma città aperta. Altro che Tax Credit.

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