Referendum cittadinanza, l’odissea di chi è in attesa: “Dalla scuola al lavoro, costretti ad anni di invisibilità prima di essere riconosciuti”
Prima la ferita, poi l’impegno politico: le due dimensioni s’intrecciano nella storia di Deepika Salhan, classe 1999, arrivata in Italia a soli nove anni, cresciuta a Verona e riconosciuta cittadina italiana nell’aprile 2024, dopo quattro anni di attesa dalla domanda – ha introdotto la pratica a diciott’anni, compiuto il decennio di residenza in Italia – e più di due terzi di vita trascorsi nel Paese. Prima di allora ha perso l’Erasmus, il tirocinio in ambito diplomatico e altre opportunità usufruite invece dai coetanei. “Non se ne esce senza cicatrici”, commenta Salhan a ilfattoquotidiano.it, “il riconoscimento arriva, ma dopo anni di invisibilità, esclusione e criteri stringenti perché si riconosca una condizione che è già nei fatti”. Ha quindi vissuto sulla pelle la presunta linea che divide il “noi” dagli “altri”, smentendo così i teorici del merito. Lei però si è sempre sentita italiana, e non ha smesso di battersi per i propri diritti e per quelli degli altri. “Essere cittadino vuol dire essere attivi nel proprio territorio”, diceva a www.africarivista.it, a soli 22 anni, denunciando la scissione tra cittadinanza sostanziale e quella formale.
Quell’impegno l’ha portata alla guida dell’associazione “Dalla parte giusta della storia” e alla co-presidenza del comitato nazionale del Referendum cittadinanza, che si terrà l’8 e 9 giugno insieme ad altri quesiti inerenti al mondo del lavoro. “Anche se non dovessimo raggiungere il quorum, continueremo a seminare inclusione nelle strade, soprattutto alle nuove generazioni”, replica Salhan ribadendo però l’aspettativa di raggiungere il cinquanta più uno dell’elettorato. “Sarà l’occasione per fotografare il Paese reale: un test generale per la democrazia italiana”. Salhan ricorda tutti gli ostacoli per chi fa richiesta: “Ci sono persone che hanno aspettato anche trent’anni per vedere riconosciuta la propria condizione di cittadini mentre lavoravano, vivevano qui da anni e pagavano le tasse”. Senza dimenticare chi, pur essendo nato, cresciuto e laureato in Italia non ha il requisito del reddito, rimanendo quindi in sospeso.
Secondo Salhan, la modifica non va a intaccare una legge dai criteri già stringenti – tra cui reddito e conoscenza della lingua italiana – ma fa venir meno la condizione “anacronistica e discriminatoria” di dieci anni per i cittadini extra-Ue mentre ai cittadini Ue ne viene chiesta la metà. E per le associazioni, essere giunti fin qui, è una già una mezza vittoria. Soprattutto dopo le delusioni trascorse. “Le firme raccolte l’anno scorso hanno dato uno slancio a una causa spesso abbandonata”, ha detto ricordando quei tentativi trascorsi non andati a buon fine: “Ogni volta che ci si è avvicinati al traguardo qualcosa è andato storto: la causa è stata minimizzata, si è scesi a patti, è mancato il coraggio e una volta è persino caduto il governo”.
Ci spostiamo a Modena e parliamo con Ijjou Berdaouz, classe 1992, arrivata in Italia nel all’età di quindici anni, e che di recente ha ottenuto il riconoscimento della cittadinanza italiana. “Non c’è solo il problema dei dieci anni: tardano anche i tempi di attesa, dopo aver fatto richiesta”, ha detto Berdaouz a Ilfattoquotidiano.it. “Poi la fase di istruttoria è coincisa con il tempi del Covid, e persino la prefettura era a corto di personale per seguire le pratiche”.
Berdaouz sostiene che il percorso verso la cittadinanza sia segnato da forti “rigidità”, sottolineando che le complicazioni precludono dall’accesso alla cittadinanza persone “nate o cresciute qui e disposte a mettere i loro talenti a servizio della propria comunità”.
Bibliotecaria di mestiere, Berdaouz è laureata in antropologia e storia del mondo contemporaneo. Ha esperienza come mediatrice culturale ed è volontaria di “Intrecci comunitari”, il laboratorio di Caritas diocesana di Modena-Nonantola, presso il quale ha fondato una piccola biblioteca autogestita da un gruppo di adolescenti perlopiù con retroterra migratorio.
“Qui mi sento a casa”, racconta Berdaouz, ricordando il sostegno ricevuto a sua volta, appena arrivata a Modena, dal Gruppo Volontariato Crocetta impegnato in ambito educativo nell’omonimo quartiere modenese. “Mi impegno insieme ad altre donne con background migratorio desiderose di partecipare alla vita della comunità”. Berdaouz è italiana, ma si sente anche “ambasciatrice” della propria cultura di provenienza. In effetti le due dimensioni non si contrappongono, ma – dice lei – “mi aiutano a far emergere le mie risorse e quelle di altre donne di origine straniera” affinché “nessuna resti nel ruolo di vittima, ma ciascuna possa sentirsi cittadina del territorio in cui vive”.
Quello di Berdaouz è un impegno fondato quindi sulla vita stessa. E talvolta messo anche nero su bianco. Lei stessa, insieme alla collega Giulia Consoli, ha realizzato una ricerca dal titolo “Non mi chiamo Francesca” che dà voce alle traiettorie di vita di giovani donne, tra 15 e 35 anni, appartenenti alle diaspore marocchine in Emilia-Romagna e Lombardia pubblicata dalla rivista “Antropologia Pubblica”. Dalle voci raccolte spuntano altre storie che fanno riflettere sulle contraddizioni degli attuali criteri che definiscono chi è cittadino e chi sta dall’altra parte, come quella di quattro di sorelle Tafsut, Meriem, Doha e Sofia: le prime tre nate in Marocco e giunte in Italia nel 2007, mentre Sofia è nata due anni dopo in Italia ed è l’unica ad aver ottenuto la cittadinanza. La via: suo padre, che l’ha acquisita nel 2015. E basta loro questo perché lo stesso nucleo venga separato mentre fa la fila all’aeroporto, così come in tanti settori della vita sociale.
Interpellata sul Referendum, la presidente di Italiani senza cittadinanza, Daniela Ionita, chiarisce che “la cittadinanza formale sarebbe sì un passo in avanti2, ma c’è anche molto da fare “sull’immaginario delle persone, abituate ad associare il velo o la pelle colorata allo straniero. E lo straniero a una categoria subalterna, spesso da sfruttare”.