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Ultimo aggiornamento: 11:14 del 4 Giugno

“Mentre parlo con voi la mia famiglia potrebbe essere morta”: fra traumi e angoscia, le vite sospese dei palestinesi scappati da Gaza

Oltre 100mila persone si trovano in Egitto senza poter lavorare e senza poter lasciare il Paese. In bilico tra un futuro che non c'è e un passato distrutto. E con la costante paura per i propri cari ancora nell'enclave. Le testimonianze raccolte al Cairo
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“Abbiamo sempre sentito i nostri nonni parlare delle persone fuggite nella Nakba del 1948. Ora sembra che anche noi faremo parte di quelli ‘lontani per sempre‘”. N.S. è un’operatrice umanitaria palestinese della Striscia di Gaza. L’anno scorso, prima che Israele chiudesse il confine di Rafah bloccando anche il passaggio di sfollati, è riuscita a scappare e mettersi in salvo insieme a suo marito e ai suoi due figli. Oggi è una degli oltre 100mila sfollati da Gaza che vivono in Egitto in una sorta di limbo, costretti a sostenere il peso dei sensi di colpa e del trauma lasciato da mesi di bombardamenti israeliani, insieme all’angoscia per chi è ancora dentro e alla speranza di tornare. “È tutto molto incerto e doloroso. Abbiamo perso la nostra casa, che rimarrà per sempre una cosa che vorremo”. Sono vite sospese. Storie che possono sembrare secondarie di fronte a ciò che accade nella Striscia, dove la popolazione soffre la fame e i morti hanno superato la cifra indicibile di 54mila, ma che sono anche loro una conseguenza drammatica del massacro .

Mohammed Maliha è project manager per l’organizzazione italiana Vento di Terra. Dentro la Striscia ha ancora i genitori, i fratelli e le sorelle. “Mentre sono qui a parlare con voi, gran parte della mia famiglia è ancora là solo perché non ha avuto la possibilità di uscire. Nelle ultime ore ci sono state centinaia di persone uccise. Forse anche qualcuno dei miei familiari è tra quelle vittime”. Anche Jumana Shahin lavorava come operatrice umanitaria a Gaza e oggi si trova al Cairo. “È difficile stare qui al sicuro mentre le persone che ami stanno vivendo un genocidio” racconta a Ilfattoquotidiano.it a margine degli incontri in un albergo del Cairo con la carovana solidale di parlamentari, ong e giornalisti italiani organizzata da Aoi, Arci e Assopace Palestina, che il 18 maggio ha raggiungo il valico di Rafah per chiedere il cessate il fuoco. A rendere ancora più difficile le condizioni di chi è riuscito a fuggire, a volte indebitandosi o vendendo tutto per pagare il passaggio, è lo status giuridico. I palestinesi di Gaza non hanno il visto e non sono residenti e questo impedisce loro di candidarsi per un lavoro o di iscrivere i figli alla scuola egiziana. Una condizione che Shahin sintetizza così: “Un futuro ambiguo, un presente devastante e un passato distrutto”. Oggi, spiega, “mi trovo qui e sono bloccata fisicamente ed emotivamente. È come essere in un loop dal quale non riesco a liberarmi. Non posso lavorare e non posso lasciare il Paese. Con il pensiero sono ancora a Gaza: quando leggo di un nuovo massacro riesco ancora a sentire le urla nella mia mente. Anche il suono degli aerei o dei fuochi d’artificio mi riporta sempre lì”. Proprio per aiutare chi è scappato si sono attivate diverse organizzazione egiziane. Maroua Abudaqqa, una donna palestinese-egiziana, gestisce il progetto Pyramids of hope, che permette a 3500 bambini e bambine di Gaza di andare a scuola e di ritrovare una quotidianità lontana dalle bombe. Centinaia di loro hanno perso entrambi i genitori e gli operatori del centro si occupano anche di alleviare le ripercussioni di un trauma incurabile.

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