Fame come arma di guerra e tagli ai fondi per lo sviluppo: bisogna invertire la tendenza
di Francesco Petrelli, portavoce e policy advisor su sicurezza alimentare di Oxfam Italia
Il nuovo Rapporto Globale sulle Crisi Alimentari appena pubblicato, curato da una coalizione di agenzie internazionali e organizzazioni della società civile, segna un ulteriore salto di qualità nell’analisi di un contesto internazionale sempre più caratterizzato dai tagli agli aiuti umanitari e allo sviluppo, che rappresentano il primo strumento per combattere e prevenire la fame e le emergenze umanitarie.
In un momento di crisi del multilateralismo ci pone infatti di fronte ad una fotografia che non solo dovrebbe far riflettere, ma spingere la comunità internazionale a un sostanziale ripensamento rispetto alla strada imboccata per la risoluzione delle più gravi crisi e conflitti che stiamo vivendo.
Partiamo da alcuni numeri chiave. Per il sesto anno consecutivo il Rapporto, che prende in esame ben 65 Paesi, ha registrato un aumento del numero di persone colpite da malnutrizione grave nel mondo: 295,7 milioni in totale, 13,7 milioni in più rispetto all’anno scorso, ossia il doppio rispetto al 2020. Una fascia sempre più larga della popolazione mondiale che rischia quotidianamente la morte per mera mancanza di cibo.
La guerra prima causa della fame
Questi numeri non sono però frutto del caso o di una congiuntura, bensì hanno cause profonde che emergono con nettezza dal Rapporto. Si tratta di un combinato disposto che vede i conflitti come principale causa di quest’emergenza globale. Basti pensare che il 95% delle persone colpite dal livello più grave di malnutrizione, secondo i criteri definiti dalla Fao, si trovano oggi in Sudan e a Gaza. Un contesto, quello della Striscia, dove la fame non è più solo un effetto, ma viene usata direttamente e volutamente come un’arma di guerra, in aperta violazione sia della Risoluzione 2147 del 2018 dell’Onu che del diritto umanitario internazionale.
Clima, protezionismo, speculazione
Alla guerra si aggiunge poi l’avanzare sempre più veloce della crisi climatica che rappresenta un propellente di tutti i fenomeni di migrazione forzata. La desertificazione, il susseguirsi di eventi climatici sempre più estremi infatti portano sempre più spesso al collasso economie basate su agricoltura e pastorizia e questo porta intere comunità a dover migrare per sopravvivere: su 96 milioni di persone in questa condizione, il 95% dei profughi interni e il 70% dei rifugiati e richiedenti asilo vivono in paesi colpiti da crisi alimentari.
La fame è inoltre un fenomeno aggravato dalle crescenti disuguaglianze economiche e sociali, soprattutto in paesi già poverissimi, e spesso le prime vittime sono i più vulnerabili: 37,7 milioni di bambini, quasi 11 milioni di donne in gravidanza e paradossalmente i piccoli contadini che il cibo lo producono e che corrispondono in buona parte alle popolazioni costrette alle migrazioni forzate, ad esempio in Africa.
In questo scenario di fragilità estrema, la nuova volatilità globale favorita dalle tensioni economiche protezionistiche a colpi di minacciosi aumenti tariffari non fa che peggiorare la situazione. Per combattere la fame invece sarebbero necessarie frontiere aperte e un mercato alimentare globale governato da regole accettabilmente eque. Diversamente, prezzi fuori controllo e speculazioni su beni alimentari essenziali rischiano di portare alla morte milioni di persone.
Aiuti e cooperazione sotto attacco
Di fonte a questa situazione, così urgente e drammatica, in cui aumenta il gap tra bisogni umanitari e disponibilità di fondi, si inseriscono i tagli dell’aiuto globale allo sviluppo.
In un quadro di attacco e delegittimazione del sistema di cooperazione multilaterale, negli ultimi mesi abbiamo infatti assistito, oltre alle riduzioni operate da molti donatori internazionali ed europei, soprattutto alla cancellazione degli aiuti statunitensi di UsAid operata dall’amministrazione Trump, che da sola apre una voragine pari a un terzo degli aiuti pubblici mondiali (220 miliardi di dollari). Un’operazione non dettata certo dalla mancanza di risorse.
Se il mercato delle armi vale 10 volte quello del pane…
Quello a cui stiamo assistendo è infatti prima di tutto una crisi politica e morale, che rischia di produrre una catena sempre più incontrollabile di instabilità in varie parti del mondo. Dove da un lato abbiamo un “mercato mondiale del pane” del valore di 227 miliardi di dollari, accanto spese militari che (secondo l’autorevolissimo istituto svedese Sipri) sono arrivate nel 2024 alla cifra record di 2,400 miliardi. In altre parole, il mercato delle armi oggi vale 10 volte il mercato mondiale del principale alimento di sostentamento dell’umanità.
Verso la conferenza sullo sviluppo di Siviglia
Difficile risalire la china, in una stagione così difficile e avversa, perché dobbiamo gestire un piano inclinato che rischia di scaricare i suoi effetti anche su di noi. Un’occasione per provare a invertire la tendenza potrebbe essere la prossima Conferenza Onu di Siviglia di fine giugno sulla “Finanza per lo sviluppo”, ossia l’evento multilaterale più rilevante dell’anno.
Sarebbe però necessario che almeno la parte più consapevole della comunità internazionale e dei Paesi donatori, a partire dall’Europa, si ponesse il problema della gestione dell’emergenza alimentare globale strutturando un piano di interventi realmente in grado di agire al più presto nelle maggiori aree di crisi, rispondendo ai bisogni umanitari e disegnando allo stesso tempo una strategia efficace di medio periodo per lo sviluppo delle aree più povere e vulnerabili del pianeta. Ponendosi come orizzonte, se non il raggiungimento, almeno l’avvicinamento agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, definita dalle Nazioni Unite.