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A Cannes la Nouvelle Vague di Richard Linklater per ricordare un tempo mitico del cinema

Linklater non fa un’operazione nostalgia. Quello che cerca è lo spirito di un momento unico che si sapeva rivoluzionario
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Bilancio di metà festival di Cannes: siamo in linea con altre annate recenti. Non si è ancora visto il film memorabile, quel La dolce vita, Il gattopardo o Blow-up, per restare in Italia, o quel Pulp fiction, La conversazione (con il grande Gene Hackman, il festival avrebbe potuto ricordarlo…), Lezioni di piano o The tree of life, che nel corso degli anni hanno sbancato il festival vincendo la Palma.

Del resto Cannes è troppe cose ormai e il concorso è soltanto una delle tante. Basta passeggiare tra gli stand del Marché du Film per capire che ci sono interessi che girano lontano dal red carpet, e che contano più del concorso. C’è poi anche una Cannes “politica”, che ha bisogno dei suoi riti – vedi il discorso di Bob De Niro all’inaugurazione, l’esclusione dal red carpet di un attore accusato (e per ora non condannato) di molestie sessuali, i vari award minori e non ufficiali distribuiti in questi giorni.

Quanto ai film del concorso, i migliori che si sono visti finora sono Nouvelle Vague di Richard Linklater e Sirāt di Oliver Laxe. Sarà il titolo, ma il film di Linklater sprizza energia da tutti i pori, ricostruendo con precisione ed empatia il making of di Fino all’ultimo respiro, il film cult di Godard che nel 1960 cambiò per sempre la storia del cinema. Celebrarlo nel 2025, a 130 anni dal treno dei fratelli Lumière che entrava nella stazione di La Ciotat, vuol dire sottolineare ancor più il ruolo di svolta avuto da quel film, guarda caso uscito 65 anni fa, a metà esatta del percorso finora compiuto dal cinema.

Linklater non fa un’operazione nostalgia. Quello che cerca, introducendo la combriccola dei giovani critici dei Cahiers du cinéma che alla fine degli anni Cinquanta stavano passando alla regia, e alcuni loro sodali – da Rossellini a Bresson, da Melville a Jean Rouch – è lo spirito di un momento unico che si sapeva rivoluzionario. Nemmeno di un’epoca, perché quella della Nouvelle Vague fu proprio una fiammata momentanea, che durò pochi ma intensissimi anni. Che cosa c’era di rivoluzionario in quei giovani? Non un afflato direttamente ed esplicitamente politico, ma un modo di relazionarsi con la vita e con il cinema, pensandoli come la stessa cosa.

A un certo punto del film di Linklater, Godard dice: “Controlliamo i nostri pensieri che non vogliono dire niente, e non le nostre emozioni che vogliono dire tutto”. Linklater coglie bene, con questa e altre battute di cui il film è pieno (esempio: “Continuiamo la nostra ricerca dell’istantaneo e dell’inatteso, di cui solo noi siamo capaci”; oppure questo dialogo: “Tra il dolore e il nulla io scelgo il dolore, e te?” “Il dolore è idiota, io scelgo il nulla”) il bisogno esplosivo di cambiare il cinema per cambiare il mondo. Di qui il film di Godard girato in venti giorni, con molta improvvisazione e qualche idea geniale, come quella di rinchiudere il direttore della fotografia Raoul Coutard in un carretto per la consegna della posta per filmare, non visto, in un carrello sui generis.

Linklater cerca le somiglianze degli attori con i protagonisti dell’epoca – impressionante quella di Aubry Dullin con Jean-Paul Belmondo – gira in pellicola e in un bianco e nero d’epoca, trova la Parigi anni Cinquanta per un film. Ma più che il côté rétro gli interessa trovare il mood intellettuale e sentimentale del film. Il suo elemento romantico.

Sirāt è un film che per certi versi potrebbe apparire inizialmente opposto a Nouvelle Vague. Tanto Linklater cerca la morbidezza, tanto invece Laxe spara duro fin dall’inizio, con i primi dieci minuti del film che ci portano dentro un rave in pieno deserto con musica a tutto volume, che assorda e ipnotizza. (Tra parentesi: per questo e altri motivi il film va visto assolutamente in sala). E tuttavia con il passare dei minuti il film di Laxe si trasforma in qualcosa di più silenzioso e in un certo senso mistico. Nel rave affollato da giovani e meno giovani che sembrano scappati dal mondo arriva un uomo, accompagnato dal figlio bambino e in cerca dell’altra figlia, scomparsa da mesi. La cerca lì, nel deserto, in un posto che più impossibile non si può. Ma questa ricerca lo porterà, attraverso la perdita, verso un’altra dimensione, quasi astratta o rituale: una dimensione in cui tutto perde senso e non si sa più che cosa siamo.

Infatti, nonostante l’inizio sonoramente e visivamente coinvolgente, non è qui il cuore del film. Anzi, se vogliamo, paradossalmente il film parte piano per acquistare forza progressivamente, man mano che i personaggi vagano nel deserto e si riducono di numero, fino ad arrivare a un finale perfetto nella sua asciuttezza. Sirāt, diceva una didascalia all’inizio del film, è il ponte tra paradiso e inferno, sottile come un capello e affilato come una lama. Tutto sta nel transitare in quel passaggio, che porta nell’altrove, senza perdersi strada facendo.

Oltre ai due film di Linklater e Laxe, da tenere a mente per premi eventuali anche Dossier 137, di Dominik Moll, storia sulla giustizia impossibile quando si confronta con il potere, ispirata a fatti veri accaduti a Parigi durante una manifestazione dei Gilets Jaunes. Potrebbe essere un premio per la sua interprete, Léa Drucker.

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