"Un periodo molto oscuro della mia vita" - 4/9
“Un periodo molto oscuro della mia vita”
In Life, autobiografia scritta con il vaticanista Mediaset Fabio Marchese Ragona, Bergoglio rivelò: “A Córdoba rimasi per un anno, dieci mesi e tredici giorni, fino al maggio del 1992: un periodo molto lungo e oscuro della mia vita. Oscuro perché in quel tempo vissi con uno spirito quasi di sconfitta nel cuore, dato che non capivo bene perché fossi stato mandato lì dai superiori, ma accettando quella decisione con obbedienza”. E aggiunse: “Quando nel 1990 ritornai a Córdoba en destierro, in esilio per punizione, lo scenario era completamente cambiato: avevo guidato la provincia argentina dei gesuiti, avevo avuto incarichi di grande responsabilità e adesso ero tornato a essere un semplice confessore, un ministero, questo, molto bello e importante. In quel periodo prevaleva l’oscurità, un’ombra che mi portava a lavorare su me stesso, concedendomi di trasformare quella situazione in un’occasione di purificazione interiore. In quei momenti la spiritualità ignaziana fu il mio faro, ma sono anche convinto che il Signore mi abbia permesso di vivere quel periodo di crisi per mettermi alla prova e poter leggere meglio nel mio cuore”.
Francesco raccontò che “in quei quasi due anni pensai tanto al mio passato, al mio periodo da provinciale, alle scelte fatte in modo istintivo e personalistico, agli errori commessi per via del mio atteggiamento autoritario, tanto da essere accusato di essere ultraconservatore. Mi sono quindi convinto sempre di più che quegli anni di silenzio, nella cella numero cinque della residenza di Córdoba, siano serviti per poter capire come guardare avanti con serenità. Qualcuno con il tempo ha enfatizzato un po’ troppo ciò che accadde in quel periodo oscuro della mia vita: c’è chi ha parlato di mobbing nei miei confronti, di telefonate che non mi venivano passate o di lettere che non mi venivano consegnate. Questo non è vero, sarebbe ingiusto dire che le cose andarono in questo modo. C’è chi ha pensato che per me, a quell’età, fosse umiliante occuparmi dei confratelli ammalati, lavarli o dormire al loro fianco per dare assistenza, o aiutare in lavanderia: per me, però, era spontaneo farlo e credo anche che sia un passaggio fondamentale nella vita di chiunque voglia davvero incontrare Gesù Cristo. Mettersi al servizio dei più fragili, dei poveri, degli ultimi è ciò che ogni uomo di Dio, soprattutto se sta ai vertici della Chiesa, dovrebbe fare: essere pastori con addosso l’odore delle pecore. È vero invece che in quel periodo ero molto chiuso in me stesso, un po’ depresso: passavo la maggior parte del mio tempo nella residenza, uscivo di rado. Avevo molto tempo libero e alle confessioni alternavo lo studio, la lettura dei documenti di Papa Giovanni Paolo II e dei libri dell’allora cardinale Joseph Ratzinger per la mia tesi di dottorato, lo studio di quasi tutta la storia dei papi scritta dallo storico Ludwig von Pastor: ho divorato trentasette volumi su quaranta, un bel record! E, per come sono andate le cose nella mia vita, devo dire che quella lettura mi è proprio tornata utile!”.
In Spera, autobiografia scritta con Carlo Musso, Francesco affermava che “nella vita non tutto si risolve con la giustizia. Soprattutto laddove si deve mettere un argine al male, qualcuno deve amare oltre il dovuto, per ricominciare una storia di grazia. Sappiamo bene che il male conosce le sue vendette: se non lo si interrompe rischia di dilagare, soffocando il mondo intero”. Una riflessione che può essere letta anche come un perdono sincero verso chi, all’interno della Compagnia di Gesù, aveva decretato la fine della “carriera ecclesiastica” – “termine che mi fa schifo e che andrebbe abolito”, disse Bergoglio recentemente – di quel giovane prete gesuita che anni dopo divenne Papa.