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Luljeta: la figlia della natura (Traduzione di Arben Dedja)

Appartiene alla prima generazione dei poeti post-totalitari albanesi ed è sicuramente la più conosciuta all’estero, con libri tradotti in una decina di lingue
Luljeta: la figlia della natura (Traduzione di Arben Dedja)
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Luljeta Lleshanaku è nata nel 1968 a Elbasan (Albania) e vive a New York. Proviene da una famiglia considerata “nemica del popolo”, perciò perseguitata durante il Regime. Non le è stato permesso studiare all’università, cosa che ha fatto solo dopo il 1990. Appartiene alla prima generazione dei poeti post-totalitari albanesi ed è sicuramente la più conosciuta all’estero (colleghi maschi compresi), con libri tradotti in una decina di lingue (e con quattro titoli in inglese), riconosciuta come una delle voci più influenti della nuova poesia dell’Europa dell’Est. Ha pubblicato nove libri di poesia e vinto numerosi premi all’estero, tra gli altri un “English PEN” e un “European Poet of Freedom”, ma anche in patria, dove attualmente è anche “Poeta Laureato” (2023-25). Sue poesie sono state pubblicate in Italia in antologie, riviste e, nel 2006, nel volume Antipastorale (LietoColle). Ho cercato di tradurre poesie sconosciute al pubblico italiano.

Le poesie di Lleshanaku hanno qualità cinematografiche e narrative eccelse. La sua voce è limpida, diretta. I versi sono lunghi, senza rima, a volte impiegati in descrizioni complesse che hanno a che fare con i ricordi, i sogni, la mitologia. Dai dolori il sentimento emerge piano, ovattato e timoroso; prevale il ragionamento, che risplende come una lama. Le metafore ci arrivano da lontano, ma sono comunque fresche e per niente usurate. Michael Hofmann, nella London Review of Books, paragona i versi della Lleshanaku con quelli di Achmatova, Herbert, Holub, Szymborska e Zagajewski.

A.D.

In mancanza delle acque…

Domenica. Dalle suole delle scarpe
nel corridoio
si scioglie il plasma della neve e l’amnesia delle strade corte.

La lampada da 150W nel centro della stanza,
come un pezzo giallo di formaggio in una trappola di noia.
Mia mamma lavora ai ferri, contando sottovoce;
lei sa sempre quanto e quando cambiare riga,
attaccata come un pezzo di stucco all’angolo di quella finestra
che diventa sempre più chiara.
Lei è un piccolo cuscino di spilli
che conosce a menadito l’arte della sottomissione.
Cerca di insegnarlo anche a me,
e a mia sorella;
tre bambole Matrioska in fila per grandezza,
l’ultima – io
l’indissolubile.

*

Seguendo il film della sera

Dondolando
dentro la curiosità del film della sera
noi quattro sembriamo pezzetti dello stesso oggetto
grandi e piccoli,
sopra un fine setaccio da archeologo.

Costole, gomiti, clavicole, ginocchia,
appoggiati uno all’altro liberamente
e un’illusione che tremante si proietta
dallo schermo
nella nostra architettura ionica di carne.

«Le cose dovevano andare diversamente…» – dici
con la stessa tenerezza,
come si trattasse del cane di casa legato in cortile,
in una notte spaventosa
quando i lampi camminano a piedi nudi sopra carboni ardenti.

Spegniamo le luci. Ci prepariamo per dormire.
Le nostre menti impallidiscono come due limoni nel buio,
acidi, amari, insoddisfatti di sé.

«Noi potevamo… se…!»

E ci nascondiamo in un abbraccio mozzafiato,
semplicemente per non parlare,
semplicemente temendo di dover raccontare
una storia che non conosciamo ancora,
mentre non c’è nessun latrato di cane, in cortile.

…come i pezzi d’argilla sopra il setaccio,
senza capire che sono loro la storia in sé,
un’unica storia
raccontata in più modi.

*

Scacchi

Autunno. Le venature del marmo
si dilatano per le piogge.

Le tombe dei miei cari,
con solo quattro pollici di tempo nel mezzo
in fila
come macchine bloccate in coda
all’incrocio con la ferrovia.

La guerra è finita. Quel guantone da fabbro
che li teneva una volta, come dita, tutti insieme
è stato gettato via, inutile.

Al di fuori, sono semplicemente degli sconosciuti
che aspettano solo che il treno passi
dall’altra direzione della strada…

L’odore della terra
ti ricorda la casa
dove un orologio appeso al muro manca.

Pulisco con cura i nomi sulle lapidi.
Gli anni… come piccole ferite sulle ginocchia.
L’amore… che adesso brucia meno
di una spina di rosa.

All’entrata del cimitero
il guardiano gioca a scacchi con sé stesso.

*

Il ritorno di Menelao

Dopo Troia,
nessuno si è occupato del mio ritorno a Sparta,
né Omero, né qualche cronista.
In giro, tra i denti
si disse che durò otto anni.
Non avevano tempo:
si stavano occupando del ritorno di Odisseo, di Idomeneo
e di Agamennone, tutti con vendette da vendicare e da essere vendicate.
Uno avrebbe ucciso i proci aspiranti al trono,
l’altro il figlio come voto a Poseidone
e il terzo, con un coltello sulla schiena,
avrebbe scritto la storia di sua moglie.
Mentre il mio ritorno finisce qui,
in questa nave, con i miei soldati
che stringono il bottino di guerra che ancora sa di fumo,
con gli schiavi (che se ne infischiano di dove siamo diretti,
e se mai ci arriveremo),
con tanta gloria, l’onore ristabilito
e con Elena lì sulla prua,
che continua a soffrire il mal di mare.
Adesso è mia; ma non so cosa farne.

Qualcuno disse che mi avvicinai a Creta, ma i venti mi spinsero in Egitto,
dove finsi di aspettare il vento buono per il ritorno,
ma quel vento mai soffiò.
Qualcun altro disse che ritornai a Sparta, perché Telemaco
non sapeva a chi altro chiedere di suo padre
(ovvio, letterariamente avrebbe senso).
Ma, la verità è
che continuo a peregrinare per dimenticati mari,
nelle acque della storia,
anche perché lì, nel palazzo, in attesa,
i miei schiavi riscaldano inutilmente l’acqua ogni giorno daccapo
e sgozzano invano un animale, che poi loro stessi mangiano a fine giornata.

La patria adesso non esiste.
Non a causa della maledizione degli Dei,
ma perché con la vendetta tutto ha fine. Il sipario cade.
I destini letterari si compiono. (I destini reali sono semplicemente una loro estensione.)
E la pace di per sé non è mai una ragione.

Tu o colto lettore, oppure tu fanciullo che ascolti questa favola
ti auguro: Che ritardi più che può la tua vendetta!
Credimi, non c’è cosa peggiore della vita che avanza,
non sei né tra i morti né tra i vivi.

*

Affresco

Ora la mia gravità è zero. La libertà non ha più senso.
La mia presenza pesa quanto un capello sul colletto della camicia.
I lati dell’ellisse si toccano, cadono in una muta affermazione,
perfettamente combaciano le chele del granchio
che sulla ghiaia fa un passo avanti e due a destra.
I miei formicolii si sono da tempo sbriciolati tra le tue dita:
non c’è più timore, né gagliardia e neanche morte.
Sono leggera, piuma da indiano colorata, la luna la posso toccare liberamente,
la casta luna come il sesso degli angeli
negli affreschi interni della chiesa.
A volte perfino gli asteroidi muoiono, come i fuchi
nell’estasi dell’unico amore.

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