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Israele continua a condurre raid mirati e devastanti in Siria: l’intenzione è ridisegnare l’area

La nuova leadership siriana si trova di fronte a un test: come rispondere a Israele, con opzioni strategiche sempre più limitate e l'isolamento internazionale
Israele continua a condurre raid mirati e devastanti in Siria: l’intenzione è ridisegnare l’area
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Mentre l’attenzione internazionale è concentrata su Gaza, Israele porta avanti una silenziosa ma decisa riconfigurazione della Siria, mirando a ridefinirne la geografia, la sicurezza e l’orientamento politico.

Israele continua a condurre raid mirati e devastanti all’interno del territorio siriano. L’obiettivo dichiarato è impedire a qualunque attore regionale — Iran, milizie sciite, ma anche la Turchia — di utilizzare la Siria come piattaforma operativa contro Israele. In questa visione strategica, la rimozione dell’influenza iraniana non deve lasciare spazio a un’espansione turca: lo spazio siriano, secondo Israele, non può essere concesso ad alcun rivale regionale.

Ma ciò che Israele sta perseguendo oggi va ben oltre la protezione dei propri confini. L’obiettivo è più ambizioso: riplasmare la mappa della sicurezza siriana e, di riflesso, l’intero assetto geopolitico della regione. La Siria viene così trattata non solo come una minaccia da contenere, ma come un terreno su cui definire nuovi equilibri regionali.

Questa escalation non è un episodio isolato. La guerra in corso a Gaza, i tentativi di alterare gli equilibri in Cisgiordania e l’intensificarsi delle operazioni in Libano compongono un mosaico coerente: siamo davanti a una fase nuova del conflitto mediorientale, che trascende la semplice approvazione americana e si avvicina a un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.

Washington, infatti, è ormai direttamente impegnata nel dossier yemenita, conducendo attacchi contro le postazioni Houthi, e spingendosi fino a formulare minacce esplicite nei confronti dell’Iran. Questa nuova postura americana potrebbe costringere Teheran a riconsiderare le proprie mosse, scegliendo tra due opzioni: la via del dialogo e della flessibilità diplomatica, oppure un’intensificazione del confronto indiretto tramite i fronti attivi attorno a Israele.

Anticipando questo scenario, Israele sta rafforzando preventivamente i propri confini, e non solo. Sta estendendo il suo raggio d’azione anche verso aree più distanti, come l’Iraq, con l’obiettivo di neutralizzare potenziali basi operative in grado di essere usate contro di essa in futuro. Il crescente accanimento su Damasco segnala un’intenzione chiara: ridisegnare la mappa politica siriana. La nuova leadership siriana si trova così di fronte a un test cruciale: come rispondere a Israele, con opzioni strategiche sempre più limitate e un isolamento internazionale che non lascia margini di manovra.

L’ipotesi di un sostegno regionale da parte della Turchia potrebbe sembrare, almeno sulla carta, una via percorribile. Ma nella realtà attuale, segnata da una netta convergenza tra Washington e Tel Aviv, appare altamente improbabile. Il segnale è arrivato forte e chiaro: Israele ha colpito direttamente aree siriane che Ankara aveva esplicitamente identificato come possibili basi militari. La risposta turca, affidata al ministro degli Esteri Hakan Fidan, è stata inequivocabile: la Turchia non cerca alcun confronto con Israele in Siria. E ha aggiunto che se Damasco intende esplorare forme di “intesa” con Israele, si tratta di una scelta esclusivamente siriana.

Con le opzioni regionali che si riducono e le alleanze internazionali sempre più incerte, il regime siriano potrebbe trovarsi costretto a guardare direttamente a Washington. Ma la posizione americana resta ambigua. Le sanzioni continuano a essere in vigore e non esiste un canale politico chiaramente definito. In questo contesto, l’unica via praticabile per Damasco potrebbe essere proprio l’accettazione americana. Ma cosa vuole davvero Washington? Le aspettative sono molteplici, e tutte politicamente pesanti: riforme interne, ristrutturazione del potere, e — come ha lasciato intendere di recente l’inviato speciale Usa Steve Witkoff — perfino la possibile inclusione di Siria e Libano negli Accordi di Abramo. Un’ipotesi che rappresenterebbe una svolta epocale nella politica regionale.

Siamo, dunque, in un momento in cui la minaccia all’Iran non è più solo israeliana: è americana, chiara e dichiarata. Israele, in questo scenario, sta sfruttando l’escalation per imporre sul terreno una nuova realtà. Anche l’idea di ridefinire i rapporti con i vicini attraverso accordi di pace — inclusi Siria e Libano — non sembra oggi interessare davvero Tel Aviv. Perché dovrebbe, se riesce a ottenere ciò che vuole senza passare dal tavolo negoziale?

Tuttavia, se Israele dovesse riuscire a consolidare questa nuova realtà attraverso la forza, nulla esclude che domani quegli stessi accordi di pace possano servire soltanto a formalizzare ciò che sul terreno sarà già stato imposto.

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