Più di altre nazioni, i Caraibi devono fare i conti con fenomeni climatici estremi. Sull’isola di Trinidad si cerca di contrastarli con un occhio al passato e uno al presente. Lo racconta un lungo reportage firmato dall’attivista caraibica Amy Li Baksh per la BBC e pubblicato nei giorni scorsi.

La cultura del cemento e le case in stile occidentale non sono nella tradizione caraibica e, soprattutto, non sono adatte per zone con un clima diviso in due ed esacerbato dal cambiamento climatico: una stagione secca e molto calda, una umida con alluvioni e uragani. Ne sono convinti, tra gli altri, Erle Rahaman-Noronha, fondatore di Wa Samaki Ecosystems, organizzazione non profit che promuove la permacultura, la sostenibilità e la conservazione ambientale, e l’eco-architetto Celine Ramjit, che partecipa al progetto. “Sul lungo periodo, l’idea di questo sito era di sensibilizzare la gente sull’ambiente e di vivere in equilibrio con la natura”, sintetizza il promotore. Rientra in questo piano anche la tipologia delle case da costruire: economiche, con materiali naturali a chilometro zero, resistenti a caldo, piogge e vento.

Fango, terra cruda e argilla – Niente di più lontano dalla tradizione delle attuali distese di case cubiche di cemento. Travi di legno e tetti di paglia caratterizzavano invece le strutture antiche, come ricorda Tracy Assing, membro della First Peoples Community. Erano più simili a rifugi stagionali, facili da ricostruire e da restituire all’ambiente quando non servivano più. “Il fango era un progresso tecnologico”. Accanto al fango, terra cruda e argilla, da associare a rami per fornire la struttura. Una tecnica semplice ed efficace che non è certo prerogativa dei Caraibi: questi materiali sono infatti di antico impiego in molte parti del mondo e sono oggi tornati alla ribalta nella bioedilizia grazie alla loro sostenibilità.

Diffuse fino agli anni ‘40 del secolo scorso, e oggi visibili solo all’Avocat Mud House Museum, le tapias erano le tipiche case di Trinidad: ovali, con struttura di legno, pareti ottenute con un mix di argilla ed erbe, tetto di foglie di palma intrecciate. Rialzate dal terreno per non subire allagamenti, erano prive di finestre ma gradevolmente fresche, perché l’argilla è più porosa del cemento. Il contrario delle case odierne che, come denuncia Asad Mohammed, esperto di pianificazione urbanistica e territoriale e docente alla University of the West Indies, devono essere dotate di condizionatori perché le grandi vetrate vanno tenute chiuse quando ci sono piogge e sole forti. Questi edifici hanno spesso preso il posto delle case di legno in stile coloniale, con imposte capaci di proteggere dagli uragani e dal solleone, secondo quello che Asad Mohammed definisce un “buon design tropicale”.

In armonia con la natura – Per di più, oggi le case non si inseriscono nell’ambiente circostante, ma lo distruggono spianando il terreno per fare spazio alle fondamenta, il tutto a scapito della già minacciata biodiversità. Non si considerano il regime delle piogge, la vita animale e le piante: “Sono queste le cose da cui siamo disconnessi”, osserva Ramjit, che invece ha dato alla natura un ruolo di primo piano nella costruzione della fattoria di Rahaman-Noronha. Accanto all’edificio principale di cemento, il più vecchio, sorgono le nuove costruzioni realizzate non più con materiali importati, ma con quelli reperibili sul posto: legname dai boschi circostanti, erbe secche, rami di vetiver (una pianta polivalente usata anche per bonificare i terreni), paglia di riso.

Tutto ciò è stato possibile grazie a un’illuminata gestione della fattoria: abbandonata la monocoltura di agrumi che ricopriva i 12 ettari della tenuta, l’area vanta ora boschi e ambienti diversi. Sempre nell’ottica della sostenibilità ambientale si punta anche a recuperare i materiali di scarto che altrimenti finirebbero in discarica: per esempio vecchi pneumatici, trasformati in basi per le costruzioni, o bottiglie di vetro colorate, i cui cocci decorano le pareti. Si è così ricreato quel ciclo naturale che permetteva di vivere delle risorse disponibili sul posto, con un’impronta ambientale decisamente più leggera: tutti passi importanti per cercare di contrastare il cambiamento climatico che ha investito l’arcipelago in pieno.

Caraibi e cambiamento climatico – Gli studi e le statistiche parlano chiaro: l’intera area caraibica (di cui fa parte lo stato insulare di Trinidad e Tobago, grande e popolato all’incirca quanto la Liguria) subisce uragani e tempeste sempre più forti. A peggiorare le cose, circa il 70% della popolazione e delle costruzioni si concentra nell’area costiera, dove maggiore è l’esposizione a piogge, venti e alla furia dell’oceano. Già nel 2009, uno studio dello Stockholm Environment Institute-U.S. individuava la vulnerabilità dell’area sotto vari aspetti: perdita delle infrastrutture e del turismo, erosione delle coste, infiltrazioni di acqua salina in riserve di acqua dolce, perdita di raccolti ed ecosistemi. “Solo per tre di queste categorie – aumento dei danni causati dagli uragani, perdita di entrate del turismo e danni alle infrastrutture – il costo annuo dell’inerzia caraibica è stimata a un totale di 22 miliardi di dollari per il 2050”, si legge nello studio. Non c’è dunque tempo da perdere, e c’è da sperare che questi progetti riescano almeno a mitigare le problematiche.

(foto Mud House Museum, Avocat)

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