In America viene ormai catalogato come “campionato spazzatura”. Troppe partite, poca competitività, un ricambio generazionale che non è all’altezza delle aspettative. La parte giocata lascia spazio all’intrattenimento, le arene si svuotano e in tv la gente cambia canale perché non c’è più lo stesso interesse di prima. Manca imprevedibilità tecnica e, soprattutto, una storia (un nuovo volto) in grado di far appassionare le nuove generazioni (come invece sta accadendo in WNBA che, grazie a Catlin Clark, sta vivendo il momento più della sua storia). E così, nonostante accordi televisivi miliardari – con Espn, TNT, Disney e Amazon Prime -, l’NBA è attualmente l’unica Lega negli Stati Uniti in crisi di ascolti. Un prodotto monotono e noioso che rischia di perdere l’effetto “wow” per la prima volta dopo oltre 30 anni. Una Lega che vive di uomini copertina e dinastie deve fare i conti con la realtà. Un movimento che anche oggi viene citato come esempio virtuoso e punto di riferimento per il mondo del calcio, ora deve guardarsi dentro per evitare una crisi senza precedenti. Raggiungere il punto più alto è una sfida, mantenerlo per oltre 30 anni diventa un’impresa. Un prodotto inflazionato, sempre uguale e con pochissime novità. Con un problema sociale di fondo: alle nuove generazioni non interessa guardare l’NBA (così come accade nel calcio). E per di più nessuno si sente rappresentato, in campo e fuori: mancano gli idoli, l’appeal che avevano le stelle della pallacanestro fino ai primi anni ’10. L’NBA è arrivata a un punto di non ritorno?
Il calo degli ascolti in TV
La popolarità della Lega è diminuita, molti cittadini americani non guardano più l’NBA. A confermare il trend negativo, e il calo degli ascolti in tv, ci sono alcuni dati: la stagione regolare (di 82 lunghissime e inutili partite) su ESPN è in calo del 28%, su TNT si registrano solo 1,8 milioni di spettatori di media. Secondo un portavoce di ESPN, non ci sarebbe però da preoccuparsi: i dati di inizio campionato sarebbero influenzati dalla presenza delle elezioni americane e dalle World Series di baseball. Allo stesso modo, però, la situazione deve far riflettere in questo senso: se c’è da scegliere, lo spettatore non guarda l’NBA. La perdita di interesse della pallacanestro è in forte contrasto con la tendenza degli altri sport nazionali: la NFL (football americano) sta registrando il maggior numero di spettatori dal 2015, mentre le World Series di baseball sono state le più viste negli ultimi 10 anni e, come detto, la WNBA si sta espandendo esponenzialmente. Quattro delle ultime cinque Finals hanno registrato il numero di persone collegate dalla tv più basso degli ultimi 30 anni: 7,45 milioni di spettatori nel 2020 (in occasione di Miami Heat-Los Angeles Lakers), 9,91 milioni nel 2021 (anno in cui i Milwaukee Bucks hanno sconfitto i Phoenix Suns), 11,64 milioni nel 2024 (nelle finali a senso unico tra Boston Celtics e Dallas Mavericks) e 12,4 milioni nel 2022 (ultimo anello di Steph Curry con i Golden State Warriors).
Nonostante questi numeri, niente ha impedito alla lega di continuare a crescere dal punto di vista economico, vendendo il proprio prodotto a tre broadcaster. Per prossimi 11 anni, infatti, l’NBA si è accordata con Disney (che controlla ABC e ESPN), Comcast e Amazon Prime per la trasmissione di tutte (o quasi) le partite negli Stati Uniti per ricavi pari a 77 miliardi di dollari. Una cifra spropositata e “sprecata”, visti i primi risultati. Secondo il Wall Street Journal, ci sarebbero addirittura “alcuni dirigenti all’interno della NBCUniversal che ritengono che la società abbia pagato troppo per il pacchetto NBA”.
La mancata risposta dal vivo: il flop della NBA Cup
Se lo sport preferito di un americano in TV è fare zapping evitando l’NBA, le abitudini nella vita quotidiana non sono tanto differenti. Le arene si stanno svuotando o meglio, fanno fatica a riempirsi: fare “sold-out” ora è non più una consuetudine. Il flop dell’NBA Cup – l’ultima trovata creata e voluta dal commissioner Adam Silver con lo scopo di dare una ventata di aria fresca alla regular season e per incentivare i giocatori a prendere più seriamente le partite “che valgono poco” – è la perfetta cartina di tornasole di un sistema che gira su sé stesso, alla ricerca di una soluzione. Se la prima edizione era stata un successo (perché novità assoluta), lo stesso non si può dire della seconda. In occasione delle fasi finali, infatti, i biglietti per riempire la T-Mobile Arena sono stati svenduti, anche fino a 29 dollari. Basti pensare che il biglietto più economico per poter assistere a una gara di Bronny James in Summer League (la prestagione estiva) costava 175. Evento qualitativamente più basso ma notizia molto più appetibile: lo spettatore medio non sceglie più di guardare una “bella partita di basket”, ma piuttosto preferisce documentare una notizia che fa clamore.
Un gioco stucchevole e prevedibile
I tiri dal mid-range (la media distanza) sono come le mezze stagioni: non esistono più. O almeno, è quanto si sta verificando per il 90% delle franchigie. Al tempo stesso, il tiro da tre punti occupa un ruolo centrale: schemi offensivi e difese avversarie devono adattarsi ed essere pronte ad ogni tipo di distanza, e contro ogni giocatore. Se la dinastia dei Golden State Warriors aveva dato il là a un nuovo modo di intendere la pallacanestro, ogni squadra ha seguito a ruota. La verità? Non tutti i giocatori sono adatti per un certo tipo di soluzione: così, cercare il tiro dalla lunga distanza, diventa stucchevole e prevedibile. Ad oggi, i tentativi da oltre l’arco rappresentano il 40% di quelli totali in tutta la stagione. “Ho una teoria secondo cui gli ascolti sono in calo perché: tutti stanno eseguendo le stesse giocate“, ha detto Shaquille O’Neal. E la realtà non è poi così lontana: la tattica, i ruoli e le caratteristiche tecniche lasciano spazio a un triste tiro al bersaglio. C’è un’uniformità di scelte per cui preparare le partite (per un allenatore) e guardarle dal vivo non si notano differenze. Nessuno ha più uno stile ben definito e questo incide soprattutto sulla spettacolarità del basket giocato.
La politica del load management
Se non fosse obbligatorio per assicurarsi un posto ai playoff, per quella che è la sua utilità e competitività la regular season potrebbe anche cessare di esistere. Non si parla più di campionato, quanto di routine che sta stancando anche i giocatori stessi: 82 partite sono un’infinità. Per tamponare un’emorragia di sbadigli e il fuggi fuggi generale e cercare di mantenere alto l’appeal, la lega ha imposto dallo scorso anno delle nuove regole sul load management. Se prima era consentito far riposare le “star” del roster (coloro che hanno fatto parte dell’All-Star Game o di uno dei quintetti All-NBA in una qualsiasi delle tre stagioni precedenti) ora ci sono dei limiti: al massimo una di loro può essere assente, le squadre devono garantire che le stelle siano disponibili per la televisione nazionale e per le partite dei tornei stagionali e che, anche quando infortunati, siano visibili dai tifosi presenti in arena. Eccezion fatta per i giocatori ultra 35enni e con alle spalle almeno 34mila minuti giocati in stagione regolare (o 1000 gare tra regular season e playoff). Le franchigie che non rispettano le direttive possono essere multate anche fino a 1 milione di dollari. Certamente, continuare ad aumentare il numero delle partite non può essere una soluzione ma, anzi, porterebbe all’effetto contrario. Tenendo conto anche di un numero di infortuni sempre più frequenti. E non solo nel basket.
La ricerca del “nuovo volto” della Lega
L’NBA sta cercando una nuova stella: ma il punto è proprio questo, una vera stella in questo momento non c’è. Il ricambio generazionale delle nuove classi draft non sta dando le risposte sperate: nel 2025, per cercare di vendere il prodotto, la Lega fa affidamento ancora sui volti che hanno dominato gli ultimi 15 anni: Lebron James, Steph Curry e Kevin Durant. Gli stessi che hanno condotti gli USA all’oro durante le ultime Olimpiadi. Nel calcio non è tanto differente: dopo Ronaldo e Messi ci sarà qualcuno in grado di prendere il loro posto? Eppure i giocatori talentuosi ci sono, ma nessuno è in grado – per portata mediatica e tecnica – di replicare. I “nuovi” non attraggono e non soddisfano, forse anche condizionati dall’appiattimento del gioco, come già analizzato. E se è dal 2018 che gli MVP della stagione regolare sono tutti europei (escluso Embiid), la direzione è netta: puntare su Doncic, Antetokoumpo e Jokic può essere una soluzione tappabuchi, non di certo la nuova onda da percorrere per i prossimi 30 anni. Soprattutto se si considera il pregiudizio culturale. Dallo scorso anno è stato fallo all-in su Victor Wembanyama: forse, l’unico vero caso “generazionale”. Ma allo stesso tempo, così tanto unico, che per i ragazzi è difficile potersi rivedere in uno come lui.
L’Nba in Europa: il piano d’espansione
È bene ribadire che si tratta di una crisi di popolarità interna, non economica. Non è un caso infatti che il basket europeo si stia preparando all’arrivo dell’NBA: un piano d’espansione significativo per una tra le leghe più ricche del mondo. Con il mercato americano ormai saturo, il prepotente ingresso nella sfera Europa potrebbe risolvere gran parte dei problemi. Creare una nuova competizione parallela all’Eurolega con altre squadre europee? Possibile, o meglio. Questo è l’obiettivo. Accontentandosi, però, di intercettare squadre europee di minor blasone rispetto a Real Madrid, Barcellona e Olympiacos – tra le tante – che difficilmente lascerebbero l’Eurolega (e l’accordo fino al 2036 appena rinnovato con IMG, dal 2016 tra i principali partner del torneo fondamentale nel trovare sponsor, accordi commerciali e diritti televisivi) per puntare su una lega sperimentale. Sull’argomento, è intervenuto in prima persona anche Adam Silver a “The big podcast” di Shaquille O’Neal: “Una delle cose di cui abbiamo discusso è se, prima di aggiungere delle franchigie NBA, ci sia la possibilità di creare una sorta di lega indipendente nel vecchio continente. Questo potrebbe sfruttare l’enorme interesse per il gioco nelle principali capitali europee: è un qualcosa a cui stiamo pensando. Per il futuro vedo sicuramente una Division di squadre NBA in Europa. Sarebbe una cosa incredibile per questo sport”.
Prevenire una crisi senza precedenti. Dal basket propriamente inteso, a tutto quello che gli orbita attorno. “Il campionato italiano dovrebbe imitare l’NBA” è quanto suggerito dal CEO della Serie A Luigi de Siervo. Imitare sì, ma con le dovute proporzioni. L’importante è non prendere tutto per un’unica verità assoluta. Perché NBA non fa più rima con perfezione, ma con rivoluzione. Equilibrando innovazione e tradizione.