Cessate il fuoco a Gaza: l’impatto devastante del doppio standard internazionale

Il recente scambio di prigionieri, annunciato come parte di un accordo di cessate il fuoco, ha rappresentato una piccola vittoria per le famiglie palestinesi che finalmente hanno riabbracciato i propri cari. L’accordo prevede la liberazione di 33 ostaggi israeliani in cambio di 2000 palestinesi, di cui 250 condannati all’ergastolo. Questo rappresenta il più grande scambio di prigioneri nella storia della Palestina. Tuttavia, dietro questa piccola speranza emerge una narrazione profondamente disuguale, una disuguaglianza che non si limita solo alla politica, ma si riflette anche nei termini stessi utilizzati per raccontare questi eventi. Il titolo del New York Times – Ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi liberati con l’inizio del cessate il fuoco – offre un esempio lampante di questa distorsione linguistica, che merita un’analisi più approfondita.
Il divario terminologico: ostaggi e prigionieri
La parola “ostaggio” evoca immediatamente l’immagine di una vittima innocente, rapita e trattenuta contro la propria volontà senza aver commesso alcun crimine. Infatti, gli “ostaggi israeliani” sono descritti come individui con nomi, storie e volti. Il loro dolore viene raccontato, la loro condizione è trattata come una violazione tragica della libertà e della vita. Invece, il termine “prigioniero” automaticamente presuppone colpevolezza, non lascia spazio ad una lettura empatica e alla dignità del singolo individuo, e riduce le sofferenze dei palestinesi a numeri e statistiche.
La presa in ostaggio di cittadini israeliani il 7 ottobre 2023 è stata rivendicata come una risposta alla presenza di oltre 10mila palestinesi nelle carceri israeliane, dove vengono denunciati violenze, abusi e torture. Il dato sul numero dei detenuti proviene da Addameer, un’organizzazione palestinese per i diritti dei prigionieri.
Repressione e violenza durante la liberazione degli ostaggi palestinesi
L’accordo che ha portato alla liberazione degli ostaggi palestinesi è stato anche segnato da una brutale repressione da parte delle forze israeliane, hanno dichiarato molti di loro. Non solo sono stati liberati portando con sé segni di torture e sofferenze fisiche e psicologiche, ma questo processo è stato accompagnato da misure restrittive severe, limitando qualsiasi forma di celebrazione o manifestazione pubblica.
Inoltre, lo stesso giorno in cui i 90 palestinesi sono stati rilasciati come parte dell’accordo, le forze di occupazione israeliane hanno fatto irruzione in una moschea nella Cisgiordania occupata, arrestando arbitrariamente oltre 60 palestinesi innocenti, ha riportato la testata Middle East Monitor. In altre zone, sempre in Cisgiordania, le forze israeliane hanno imposto misure straordinarie, costringendo i negozi a chiudere e isolando fisicamente le aree circostanti alle prigioni, al fine di impedire qualsiasi manifestazione di solidarietà o gioia da parte della popolazione palestinese.
Inoltre, le autorità israeliane hanno espressamente vietato alle famiglie dei prigionieri di festeggiare o esporre bandiere palestinesi, minacciando che tali azioni avrebbero potuto annullare la liberazione dei detenuti. Le forze israeliane hanno anche preso il controllo del processo di liberazione, escludendo la Croce Rossa, che ha il ruolo di garantire la sicurezza e il benessere dei prigionieri, e sostituendola con polizia israeliana per evitare qualsiasi tipo di manifestazione pubblica da parte dei liberati, ha riferito Middle East Eye.
Khalida Jarrar e le condizioni degli ostaggi palestinesi
Tra i prigionieri liberati c’è anche Khalida Jarrar, leader palestinese e figura di spicco del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Arrestata senza accuse formali, detenuta in isolamento e torturata fisicamente e psicologicamente, la sua storia è un esempio del trattamento disumano riservato agli ostaggi palestinesi. Mentre i media occidentali si concentrano sulla condizione delle prigioniere israeliane, descritte come “in buona salute” dalla Croce Rossa e dai video diffusi, e trattate con attenzione e assistenza dai loro rapitori, le donne palestinesi, tra cui minorenni, sono sottoposte a torture quotidiane. Le loro condizioni di vita nelle prigioni israeliane sono spesso caratterizzate da malnutrizione, privazione del sonno e violenza fisica e psicologica.
Nel novembre 2024, il Centro Handala per i Prigionieri ed Ex-Prigionieri ha rivelato che Khalida Jarrar ha subito una campagna sistematica di abusi da parte delle autorità israeliane nella prigione di Ramla. Secondo il comunicato, Jarrar è stata detenuta in isolamento per mesi in condizioni estremamente dure che hanno messo a rischio la sua vita. La sua cella, descritta come simile a una “tomba”, priva di ventilazione adeguata e di bisogni essenziali come acqua e luce. La leader palestinese è stata costretta a sdraiarsi a terra accanto alla porta per cercare di respirare un minimo di ossigeno.
Prima dell’ultimo arresto, Jarrar stava lavorando ad un rapporto che documenta ampiamente gli abusi subiti dai prigionieri e prigioniere palestinesi nelle carceri israeliane. L’università palestinese di Birzeit ha fatto di tutto perché il report uscisse nonostante l’arresto.
Il doppio standard internazionale
Questo doppio standard riguarda anche come la comunità internazionale risponde a queste violazioni e le conseguenze che ciò comporta. La giornalista Sara Manisera, in un articolo per Voice Over Foundation, analizza l’impatto devastante della narrazione mediatica occidentale che, per decenni, ha costruito un immaginario dell’“Altro” come subalterno e sacrificabile. Questa prospettiva, modellata attraverso il linguaggio e le immagini, ha portato a valutare la vita umana in modo diverso in base alla provenienza geografica, all’etnia o alla condizione sociale, creando una netta divisione tra chi appartiene al mondo occidentale e chi, invece, viene relegato al “non Occidente”.
Manisera evidenzia come i diritti fondamentali, tra cui quelli umani e le libertà personali, ricevano attenzione e protezione solo quando sono in linea con gli interessi dei Paesi occidentali. Al contrario, in tutti gli altri casi, questi stessi diritti vengono spesso sottovalutati o del tutto ignorati, sia nel discorso politico che nei media. Questa narrazione ha un impatto profondo sul piano culturale, contribuendo a giustificare atteggiamenti discriminatori e violenti verso popolazioni percepite come “altre”, come, in questo caso, i palestinesi.