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Antonin Artaud è stato più cose contraddittorie: ecco ‘il florilegio italiano’ dei suoi cahiers

Antonin Artaud è stato più cose contraddittorie: ecco ‘il florilegio italiano’ dei suoi cahiers
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Chi è Antonin Artaud? Difficile rispondere in poche parole. Perché è stato più cose, anche contraddittorie fra loro.

Un poeta e scrittore, “monumento” della letteratura francese ormai, pur avendo lottato per tutta la vita contro il bello stile e la sua stessa lingua; un profeta del teatro, più frainteso che inascoltato; un caso clinico, oltre che critico (Deleuze), ancora insoluto. E tanto altro ancora: attore e autore di cinema e teatro; pittore; antropologo sui generis, fra i pionieri dell’osservazione partecipante con il misterioso viaggio presso gli indiani Tarahumara del Messico nel 1936.

Ma il suo viaggio più lungo egli lo ha compiuto nella malattia mentale, attraverso i sanatori che cominciò a visitare giovanissimo e i manicomi nei quali fu rinchiuso per nove anni fra 1937 e 1946. Morì 52enne nel marzo 1948 a Ivry, periferia di Parigi, sempre in una struttura psichiatrica ma aperta.

Per chi si occupa di teatro, Artaud è soprattutto l’autore di uno dei libri più affascinanti e influenti dell’intero Novecento: Le Théâtre et son double (con al centro la visione del Teatro della Crudeltà), uscito nel 1938. Eppure questo libro occupa uno solo dei 28 volumi usciti postumi presso Gallimard. Se aggiungiamo gli altri scritti teatrali e quelli sul cinema arriviamo a stento a quattro. E gli altri 24?

Per prima cosa contengono migliaia di lettere, inviate o meno, il “genere” che prediligeva. Per vincere la repulsione verso la scrittura aveva bisogno di rivolgersi ad un altro, interlocutore reale o immaginario, di scrivere per o contro qualcuno. La maggior parte di questi volumi, lo si capisce dai titoli (Cahiers de Rodez, Cahiers du Retour à Paris, Cahiers d’Ivry), comprende la produzione di Artaud negli anni Quaranta, da quando, dopo il trasferimento nella clinica di Rodez, nel sud della Francia, agli inizi del ’43, ricomincia gradualmente a lavorare.

I cahiers in questione erano proprio quaderni di scuola con fogli a quadretti, ben 404, sui quali egli scriveva furiosamente, ovunque, quasi senza sosta, intrecciando parole e disegni. C’è voluta l’infinita dedizione di Paule Thévenin, giovane interna di psichiatria quando Artaud la conobbe a Parigi nella primavera del ’46, perché questa montagna di quaderni si trasformasse nei volumi delle Oeuvres complètes, attraverso un coraggioso e rigoroso lavoro di decifrazione e sistemazione. L’impresa di una vita intera della Thévenin è stata completata, dopo la sua scomparsa, da Evelyne Grossman, che ha pubblicato nel 2011 due grossi tomi con i Cahiers d’Ivry, seguendo criteri decisamente più conservativi.

Sfogliando questi ultimi si viene travolti da un flusso ininterrotto, un magma a tutta prima indecifrabile, che tuttavia colpisce per il fortissimo investimento corporeo che lo sottende. Poi, nel flusso, cominciamo a riconoscere passaggi folgoranti, di straordinaria lucidità, dove un francese reinventato lega le parole – come scrive Grossman – “eroticamente e poeticamente – un legame fragile che deve essere costantemente rimesso in gioco per contrastare la decomposizione psicotica che si nasconde dietro l’angolo”.

Questa frase appartiene al testo introduttivo del volume appena edito Questo corpo è un uomo. Quaderni 1945-1948, Neri Pozza, nel quale, a cura e con la traduzione di Lucia Amara, sono tradotti per la prima volta in Italia 21 dei 404 cahiers. L’ordine non è quello cronologico (spesso controverso) ma viene fornito da una griglia di cinque temi, scelti fra i molti possibili: Corpo, Dio, Nome, Soffio, Teatro. Impeccabile il saggio che precede e spiega i criteri di quello che la curatrice chiama “il florilegio italiano dei cahiers di Artaud”, introducendoci alla sua lettura.

A parte Thévenin e Grossman, sono stati pochissimi quelli capaci di inoltrarsi sul serio nella selva smisurata dei cahiers. Lucia Amara è una di questi, forte della sua doppia formazione di filologa classica e di teatrologa, che le aveva già permesso di fornire pregevoli contributi sull’Artaud linguisticamente più estremo: quello delle glossolalie.
La “montagna incantata” dei 404 quaderni è ben lungi dall’essere conquistata, ma tentativi come questo ci confortano sul fatto che abbia senso continuare a scalarla. La spietata, dolente requisitoria contro la cultura occidentale che Artaud vi attua, in modi che forse non hanno l’uguale nel Novecento, appare oggi più necessaria che mai.

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