Udii un sussurro, intenso e quasi gridato, diretto a non so quale immagine, quale visione, due volte… un grido che era poco più di un respiro: “Che orrore! Che orrore!”. Così Marlow, protagonista di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, racconta l’agonia di Kurtz. Lo stesso orrore che ritroveremo, ottant’anni dopo, in Apocalypse Now (che dal racconto dello scrittore anglo-polacco è liberamente tratto) nelle parole che Kurtz-Marlon Brando rivolge, morente, a Willard-Martin Sheen: ancora una volta “Orrore! Orrore!”. Mentre Sheen colpisce con un machete Brando, il regista Francis Ford Coppola alterna l’immagine sacrificale degli indigeni che mozzano di netto la testa a un bue, puntando su un agghiacciante contrasto cromatico fra il nero del manto dell’animale e il rosso acceso del suo sangue. Per me, è una delle scene più orrorifiche cui abbia assistito al cinema.
La percezione dell’orrore, d’altra parte, è qualcosa di assolutamente soggettivo. L’orrore, infatti, non è definibile in maniera perentoria: può essere originato da ribrezzo, repulsione, spavento, ma anche da cose e persone particolarmente brutte o sgradevoli (almeno secondo i nostri canoni). Ci sono gli orrori della guerra, che, soprattutto in questi anni, i media introducono nelle nostre case, quelli della miseria, delle malattie. O ancora gli orrori suscitati da un sentimento.
Il preambolo, forse persino un po’ troppo sbrodoloso, ha il fine di introdurre un libro, Nuovo Cinema Horror, appena uscito per Mimesis, laddove il critico cinematografico Emanuele Di Nicola, pur confermando la soggettività dell’orrore e della paura, ci racconta l’horror in rapporto a quanto avviene oggi nel mondo: una chiave di lettura assolutamente innovativa. Come, per esempio, un film possa, con i tempi che corrono, terrorizzare gli spettatori più di ieri: l’attuale è un’epopea in cui “abbiamo conosciuto brividi inediti e terribili, come il Covid e la nuova guerra, ma anche il cambiamento climatico che ormai ogni giorno provoca catastrofi. Ce n’è abbastanza per aver paura. E i grandi brividi come sempre si riflettono nello specchio del cinema, che è una superficie deformante, ma che può aiutare a capire qualcosa in più, di meglio, di profondo”, scrive Di Nicola che racconta, nell’introduzione, come per lui il primo momento di orrore è collocabile “fra i cinque e i sei anni”, nel 1990, quando il nonno lo portò a vedere Batman di Tim Burton.
A terrorizzare il piccolo critico in nuce fu la scena in cui il malvagio Joker-Jack Nicholson stringe la mano, riducendolo in cenere, al solo gangster contrario alle proposte malvagie nei confronti dell’uomo-pipistrello. Oggi quella scena lo farebbe sorridere. Capitò qualcosa di simile anche a me, da ragazzino, con L’esorcista, quando la testa della indemoniata Linda Blair fece un giro di 180 gradi sul proprio collo. Più grande, quando scoprii che il vocione malefico della Blair era, nella versione italiana, quello di Laura Betti, mi feci una gran risata rivedendo la scena.
Un tema interessante sul quale si sofferma Di Nicola è anche il differente atteggiamento dello spettatore di horror: visto a casa o visto in sala, tutto cambia. Soli nella propria stanzetta, magari di notte, si può avere una fifa tremenda (se il film raggiunge il proprio orrorifico fine), ma in sala si possono toccare punte di “psicosi collettiva” che può sfociare nel “terrore generalizzato” (ovviamente per i meno adusi a questo genere di pellicole…).
Veniamo ora ai contenuti più concretamente cinematografici del libro, diviso in due parti: la prima analizza film del cosiddetto ‘new horror’, collegati da un comune fil rouge e da interpretazioni concettuali meno immediatamente apparenti: ad esempio It Follows di David Robert Mitchell (2014) sul ricorrente incubo d’essere seguito da qualcuno; The Witch (2015) di Robert Eggers dove a terrorizzare sono ancora una volta le streghe; Ereditary-Le radici del male (2018) del trentottenne Ary Aster (quando la famiglia di oggi si trasforma in un film ‘de paura’); Get Out-Scappa (2017), sorta di Indovina chi viene a cena in salsa razzista-truculenta, diretto da un Jordan Peele in grazia di Dio, a differenza dell’incomprensibile e fastidioso (questo lo dico io) Nope (2022), passando per Us-Noi, 2019.
La seconda parte del volume raccoglie i film più ‘di tendenza’, come si dice oggi, per esempio lo splendido Titane di Julia Decornau (rapporti sessuali fra donne e automobili, ma non solo… vedi Crash di David Cronenberg), vincitore al 74esimo Festival di Cannes; o i film più recenti di M. Night Shyamalan che affrontano, fra gli altri, il tema della “credulità” popolare. A cominciare da Unbreakable – Il predestinato passando per i monosillabici Split (2016), Glass (2019), Old (2021) e Trap (2024), dove il regista indiano-americano, come Hitchcock, offre un puntuale proprio cameo. Sino ai film centrati sul web che uccide e gli horror ‘d’autore’ (notare le mie virgolette) di Luca Guadagnino, giungendo al risveglio da un lungo letargo degli horror italiani, rinati come ‘horror-meteorologici’ e che affrontano, in chiave più o meno spaventosa, i problemi del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici: ad esempio Piove di Paolo Strippoli o Siccità di Paolo Virzì.
Nel saggio c’è anche molto altro che non ho qui lo spazio per citare. Ogni film (Di Nicola ne esamina 150) viene affrontato con dovizia di approcci spesso inediti per il pubblico di non addetti ai lavori ed esaminati con la forza di una seria profondità di campo. Leggetevi certe recensioni di pseudo critici-leoni da tastiera (fu Paolo Mereghetti ad affrontare per primo questo orribile dramma: per analizzare il cinema bisogna studiare, e molto) e comprenderete cosa intendo per mancanza di profondità di campo: qui sì che siamo nell’horror puro.