“Cominciai a fare politica quando uccisero Paolo Borsellino, a poche settimane dall’omicidio di Giovanni Falcone, e per me il tema di quell’esempio, di uomini delle istituzioni consapevoli dei rischi che corrono e che ciononostante continuano a fare il loro lavoro, rimane uno degli elementi più simbolici di quello che mi ha spinto a fare politica, di quello che mi ha portato dove sono oggi”. Parole pronunciate dalla presidente Giorgia Meloni a Palermo il 19 luglio 2023, in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio, dove persero la vita Paolo Borsellino, la prima collega della Polizia di Stato Emanuela Loi, i colleghi Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli: si salvò il collega Antonino Vullo, che saluto affettuosamente.

Quando ho ascoltato Meloni confesso che mi ha fatto molto piacere e mi son detto: finalmente parole di riconoscenza verso i martiri e verso le forze di polizia che notte e giorno svolgono il loro lavoro silenziosamente. Invero, poi registro che quelle parole pronunciate con tanta partecipazione di dolore nella realtà quotidiana non trovano necessaria conferma. Come sempre, per la verità non solo Meloni, ma i politici tutti fanno dichiarazioni per poi “smentirsi”, compiendo atti diversi da quelli enunciati. E vedere la presidente del Consiglio italiano accogliere sul suolo italiano il condannato per omicidio Chico Forti, proveniente dagli Usa, mi ha di fatto infastidito.

L’accoglienza, a mio avviso, è stata la lapalissiana contraddizione di Meloni, con riferimento alle parole pronunciate lo scorso anno, nei confronti di Falcone e Borsellino. Dette espressioni stridono con quanto visto all’aeroporto. Secondo il mio pensiero, un omicida conclamato che rientri in patria non dovrebbe ricevere gli onori che gli sono stati tributati. Spessissimo, la sicumera del garantismo viene sbandierata ad ogni piè sospinto con la locuzione “è innocente sino a condanna passata in giudicato”, ma qui ci troviamo innanzi ad una condanna definitiva. Il fatto che Meloni ritenga innocente Chico Forti – secondo quando riferito dal ministro degli Esteri Tajani – è una sua prerogativa come cittadina, ma non come presidente del Consiglio.

La vicenda di Chico Forti, quella di Santanchè, quella di Sgarbi e di tanti altri, semmai ce ne fosse ancora bisogno, rappresentano uno scadimento di quei valori etici ai quali ogni politico dovrebbe far riferimento. E dopo la vicenda Forti, esprimo immenso rammarico per la presa di posizione del Comando generale dell’Arma in ordine al generale Mario Mori, indagato per stragi del 93 dalla Procura della Repubblica di Firenze. Conobbi Mori allorquando prestavo servizio alla DIA di Roma e non spetta a me o al Comando dell’Arma dare giudizi sul provvedimento, qualunque esso sia. Che la nota dell’Arma sia un evidente ossimoro è fuor di dubbio. Parimenti, affermo che non c’era affatto bisogno di siffatta nota, talché appare evidente che l’Arma ha perso quel che per secoli ha dimostrato, ovvero imparzialità di giudizio sui provvedimenti adottati dall’Autorità giudiziaria.

E ora vorrei ricordare la strage di Capaci. Il 23 maggio 2024 l’ho trascorso insieme ai ragazzi di terza del Liceo Morgagni di Forlì. E mentre raccontavo loro il mio impegno di lotta a Cosa nostra, in cuor mio ho sperato che taluni personaggi disertassero la cerimonia del 32esimo anno della strage di Capaci. Non abbiamo bisogno di pupiate o di facce meste di circostanza, con la posa di qualche corona d’alloro: abbiamo bisogno soltanto di rispetto verso coloro che vissero con “onore e disciplina”. Almeno per favore non citateli e lasciateli riposare in pace.

Infine, sento il dovere di ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, i colleghi Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Un caloroso saluto ai colleghi superstiti della strage di Capaci, Angelo Corbo, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e all’autista giudiziario Giuseppe Costanza.

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