Se la questione del Pd piemontese fosse solo quella morale, le parole dei suoi dirigenti e parlamentari potrebbero avere un senso. La questione è più complessa e drammatica, è culturale ed è generata anche dagli usi e dai costumi che, almeno qui in Piemonte, il partito ha sviluppato fin dalla sua nascita, ereditandoli da Margherita e DS. I dirigenti sono ancora quelli, a volte sostituiti da cloni più giovani intercambiabili per insignificanza e bravissimi nel gestire il potere per conto dei capi. Anche i satelliti del Pd non si siedono neanche al tavolo, se a dare le carte non ci sono i croupier, quelli giusti. Eppure in passato la sinistra piemontese e torinese, in particolare quella comunista e quella del cattolicesimo sociale, ha sempre avuto ottima capacità di elaborazione e di governo: infanzia, giovani, periferie, insediamenti urbani, governo del territorio e infrastrutture. Elaborando, progettando, costruendo è cresciuta una generazione di politici e di tecnici con la capacità di dare continuità ai progetti di trasformazione e di declinazione del futuro per farne programma di governo.

Tutto cancellato dal delirio berlusconiano dell’ “abbiamo una banca”, degli accordi con la Fiat per i centri commerciali nei comuni rossi della cintura (voi investite, noi adottiamo gli strumenti urbanistici che servono), della nascita delle utilities pubbliche con manager improvvisati che giocavano al capitalismo coi soldi degli altri, delle grandi opere a prescindere dalla loro sostenibilità e a tanto altro ancora. Finito nelle partite a scopa con Marchionne, sulla barca di Bazoli, più modestamente nelle telefonate dell’onorevole rivolese al notabile delle ‘ndrangheta o il patteggiamento del sindaco Pd di Moncalieri. Oppure ancora, il presidente Pd di Avviso Pubblico beccato a evadere le tasse al Comune, appena condannato dalla Corte dei Conti a pagare quasi 20mila euro per colpa grave nella gestione delle finanze del comune, eppure ancora al comando. E così via…

Emarginati tutti “quelli che non hanno i voti”. La lealtà alla causa politica – cemento essenziale insieme alla volontà di contribuire alla trasformazione del mondo e alla solidarietà con i compagni di avventura – sostituita dalla fedeltà, quella del cane al suo padrone che lo nutre e lo porta a passeggio. Un legame più simile a quello mafioso che a quello della comune militanza intorno a un progetto di trasformazione della società.

Su questi fondamenti è avvenuta la selezione del ceto politico, quello dei sindaci, degli assessori e dei consiglieri comunali che oggi governano (ancora) comuni importanti. Ovviamente generalizzare è sbagliato, il Pd piemontese dispone di ottimi amministratori e anche di qualche bella testa capace di scrutare il futuro trasformandolo in scommessa politica. Ma non comandano loro. Spesso osservano, deplorano e tacciono, se no li fanno fuori. Chi può, se ne va a fare altro.

Il nuovo ceto politico del Pd (e del centrosinistra) ha fatto suoi i valori e i principi della destra, il neoliberismo e l’austerità in economia; senza neanche accorgersene perché è anche ignorante. Si è formato – tranne rare eccezioni – nelle cordate e nelle lotte fra correnti, invece che nelle lotte sociali e politiche che un tempo formavano i politici di sinistra e quelli vicini al cattolicesimo sociale. Pensa che il ruolo dell’amministratore pubblico sia quello dell’arbitro fra spinte ed esigenze contrapposte, tanto più forti quanto più sono abbienti gli attori in campo. Fa fatica ad accettare di essere lì per rappresentare l’interesse collettivo, vale a dire l’insieme delle necessità/aspettative dei cittadini, stimolati da un progetto di trasformazione della città e della società che conosce il passato perché pensa al futuro. Gestisce l’ordinario comunicandolo sui social per vantarsene, nello stesso modo indica il colpevole per ciò che non va. Non si fa mai carico dei problemi e delle criticità, dedica tutte le sue energie e scaricarle su altri e a trovare il modo per mandare avanti le richieste che alimentano il consenso. Se arriva qualcuno di importante a presentare un progetto o un’idea incompatibile con le regole urbanistiche, lavora per cambiarle per compiacere il proponente, perché non ha una idea di futuro, di come debba essere una città a misura di tutti e non solo dei potenti. Però parla di legalità e si copre le pudenda con le foglie di fico a disposizione. Questa è la questione culturale.

A Torino tutto il mondo vicino e dentro la politica conosceva usi e costumi dei Salvatore Gallo: c’era chi deplorava, chi approfittava, chi cercava fra gli altri capi-corrente quello più adatto a soddisfare le sue velleità. Del Sistema Torino ho scritto in abbondanza nei mesi scorsi, sta crollando per la liquefazione dei suoi pilastri, la famiglia Agnelli e il mondo post PCI e DC. Un dato conferma la crisi nera: alle primarie del centrosinistra di due anni fa hanno partecipato poco più di 11mila persone su 900mila abitanti della città, una partecipazione da condominio. Lorusso le ha vinte con 4.200 voti. Non so se la famiglia Gallo lo ha sostenuto, so che alle elezioni vere ha incassato il voto del 25,5% degli aventi diritto, un torinese su quattro.

Oggi la questione morale si può liquidare con le consuete deplorazioni, prese di distanza, e con un nuovo codice etico/foglia di fico da far sottoscrivere a tutti i militanti e candidati. Il rischio è che non lo capiscano, forse pensando che si risolva nell’aggiungere un’altra parolina chiave a quelle che già usano: legalità, trasparenza eccetera. La questione culturale è cosa ben più complessa: si tratta di costruire un nuovo ceto politico, con il materiale non eccelso a disposizione, che torni ad occuparsi dei penultimi e degli ultimi non per competere con la Caritas, ma per costruire una politica nuova per un’Italia nuova. Una scommessa da far tremare i polsi, di cui oggi non si vede nemmeno ancora la volontà di provarci davvero.

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