L’aspetto più comico della sceneggiata sulle nomine per il Teatro alla Scala è tutto quello stracciarsi le vesti in nome dei presunti principi: oggi, dopo il sorprendente tentativo del Consiglio d’amministrazione di prorogare per un anno l’accoppiata tra il sovrintendente Dominique Meyer e il direttore Riccardo Chailly, tiene banco la schiera dei difensori dell’assetto attuale, in nome di una non ingerenza della politica, o di un’ingerenza che tenga conto delle competenze.

Dall’altra parte, il ministro Sangiuliano, invoca il rispetto di quanto aveva concordato con il sindaco Sala, ovvero un nuovo vertice plurale (con l’attuale manager della Fenice di Venezia Ortombina e il direttore d’orchestra Daniele Gatti, nonché probabilmente un direttore artistico terzo), sull’onda di una maggiore italianità delle scelte nonché dell’obbligo di legge relativo al pensionamento dei direttori e sovrintendenti alla raggiunta età di 70 anni (Meyer, in realtà, classe 1955, è a un soffio dal limite).

Come ha dichiarato il sottosegretario Mazzi, che sarebbe quello competente di spettacolo (dopo una carriera tra clan Celentano, gestione di eventi come Sanremo e, più di recente, la guida di un’istituzione come l’Arena di Verona) ‘a prescindere dalla valutazione del lavoro svolto, i mandati hanno un termine per favorire il ricambio e il rinnovamento’. Già.

Per stare sulla cronaca viva, a rischio di sbagliarsi, c’è chi scommette che lo stallo politico con il Ministero sulla Scala creerà altre rogne per il sindaco: per esempio, è da rinnovare il contratto del direttore del Piccolo Teatro e il centrodestra da anni spera di piazzare alla guida dell’istituzione fondata da Paolo Grassi e Giorgio Strehler, l’ex assessore alla Cultura di Letizia Moratti, nonché autore e regista teatrale, Massimiliano Finazzer Flory, che ha appena curato le celebrazioni manzoniane con evento finale in Duomo.

Fino ad oggi l’assalto dei Fratelli d’Italia al mondo della cultura e dello spettacolo, anche dopo l’incidente Scala, è apparso quanto meno pasticciato, come dicono in tanti. Ma, senza aprire il file relativo alle gestioni Franceschini, anche la cosiddetta opposizione non scherza e si accomoda sempre volentieri nella lottizzazione, accettando combine moltiplica-poltrone (vedi Teatro di Roma, e quasi pure alla Scala) e benedicendo i vari spostamenti sulla scacchiera del potere teatrale, persino tragicomici (vedi il caso Fuortes, dalla Rai a Napoli al Maggio fiorentino, sempre con il plauso del Pd).

Certo, la competenza, nei mestieri più tecnici ha comunque un peso, non è che tutti possono dirigere una grande orchestra o suonare il primo violino: ma di ricambio e rinnovamento hai voglia a trovarne. Il che, da anni, si riflette nei cartelloni, dove raramente si possono notare spettacoli che valgano per davvero quel che costano: c’è chi riuscirebbe a organizzare un intero buon festival soltanto con i soldi che vengono buttati in una scenografia di quelle degli spettacoloni dei teatroni.

L’italianità, poi, al di là del bel valore di facciata, può avere anche senso se si parla di contenuti: il governo greco, per esempio, vuole introdurre le cosiddette quote nazionali anche sulle canzonette trasmesse alla radio. Peccato che, per individuare gli uomini chiave della lirica o del teatro, servirebbe invece uno sguardo schiettamente internazionale, tant’è che, per esempio, alcuni dei nostri migliori registi sono molto più amati e applauditi all’estero. Del resto il sistema teatrale italiano, proprio per come si è sviluppato sinora, non ha offerto certo spazi ‘al ricambio e al rinnovamento’ che Mazzi bene predica, ma anche solo la ‘sua’ Arena razzola male.

Tutto avviene sempre così, nonostante la valanga di denaro dallo Stato e dagli enti locali e dalle banche Intese e dalle Camere di commercio e da ‘chi più ne ha più ne metta’: i carrozzoni pubblici lirici e teatrali sono governati da piccole lobby, potentati politici e chissà quali camarille. Nessun altro riesce a mettere verbo, gli spettatori possono giusto fischiare e magari solo dal loggione perché in platea costa troppo.

In realtà, questo atteggiamento che ormai se ne strafrega del cosiddetto ‘interesse pubblico’, nel nostro caso, purtroppo, trattandosi in teoria di arte e di spettacolo, soffoca proprio anche la Bellezza. Se avesse un suo proprio Tribunale, come doveroso dato che la Bellezza rientra nei Diritti Umani, altro che nomine plurali: qui sarebbero tutti da condannare alla pena massima, ministri, sindaci, sovrintendenti, direttori e aspiranti tali, meritano solo l’interdizione dai teatri pubblici.

(dramaholic.it)

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