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Alice De André: “Ho pensato di cambiare il cognome. A scuola volevano buttarmi giù dalle scale, minacciavano di legarmi e bruciarmi”

È stata lei stessa a rivelarlo in un’intervista al settimanale F

di Simona Griggio

Non deve essere facile chiamarsi Alice De André, confrontarsi con la memoria di b con la sua eredità artistica, portarsi addosso un cognome così. Ecco perché la nipote di nonno Fabrizio, figlia del cantautore Cristiano De André e di Sabrina La Rosa, ex ballerina della Scala, ha valutato seriamente di cambiarlo: “Ho pensato di cambiare il cognome. A scuola ho combattuto con le bulle che volevano buttarmi giù dalle scale”. Il cognome di un artista che è stato leggenda è davvero troppo ingombrante per una giovane attrice di 24 anni che sta per debuttare in una fiction tv. Appena lo si pronuncia vengono in mente suoni e parole che si fanno poesia, storie di umanità che si staccano dal singolare e diventano di tutti. E i vicoli di Genova, mescolanza di odori, culture, differenze. Ma per via di quel cognome è stata anche bullizzata a scuola, afferma in un’intervista al settimanale F.

Alice sta per debuttare in “Com’è umano lui”, film diretto da Luca Manfredi ambientato nella seconda metà degli anni ’50 a Genova. Racconta, sullo sfondo di scorci cittadini con panorami mozzafiato, palazzi storici grandiosi, stradine come in “Crêuza de mä”, la storia di Paolo Villaggio (interpretato da Enzo Paci), grande amico proprio del nonno. Un impegno importante, perché in quella ricostruzione scorre il filo di un legame che la rappresenta: il rapporto con la sua identità e con la sua famiglia. Sensazioni, non ricordi: perché lei Fabrizio De André non lo non ha mai incontrato. “L‘unico contatto con lui è stata la sua mano sulla pancia di mia madre, che pochi giorni prima della morte di Fabrizio gli ha detto ‘Sono incinta di Alice’”, rivela emozionata.

Racconta che da piccolina le sembrava sempre di vedere Fabrizio: “Mia mamma si sedeva in cucina e io le dicevo ‘Cosa fai? Ti siedi in braccio al nonno?’”. Per lei era come un angelo custode. Una figura protettiva. Ma per via di quel cognome celebre, spiega, è stata bullizzata quando aveva 16 anni. “Non mi sentivo compresa e a scuola ero vittima di bullismo: alcune studentesse volevano buttarmi giù dalle scale e avevano creato persino un gruppo sui social in cui giuravano ‘vendetta contro Alice De André’, un gruppo pieno di minacce violentissime come legarmi e bruciarmi”. Non le prendeva come scherzi fra ragazzi, le facevano molto male. Rivela ancora: “Ero confusa, avevo attacchi di panico, crisi di rabbia tremende che non sapevo incanalare. Le canzoni di mio nonno erano l’amico che non avevo”.

A quelle minacce però ha saputo reagire. Come? “Andando a scuola con una maglietta con scritto ‘sono cattiva’ e una pistola ad acqua per sciogliere il trucco alle bulle, tutte maggiorenni. Soffrivo, ma ho imparato allora l’importanza di riderci su”. Ad Alice, che ha studiato danza e teatro, piace molto anche il registro comico e spesso si diverte a prendere in giro anche la storia di Faber: “Spesso, sui social e non solo, mi accusano di mancargli di rispetto. Ma io me la prendo con chi vuole farne un santino, anziché un uomo che ci ha dato le parole di cui avevamo bisogno”.

Un altro salto nel passato. Alla sua infanzia di luci e ombre: “Da piccola vivevo coi miei in Sardegna, sono stata abituata a giocare con l’immaginazione. Papà si inventava avventure pazzesche, esploravamo, era divertente. A sei anni i miei si sono separati e ho iniziato a vederlo sempre meno. Ma era difficile tenere tutto dentro casa: qualsiasi cosa succedesse alla mia famiglia finiva regolarmente sui giornali”. Per questo Alice è diventata presto autonoma: “A 18 anni sono andata ad abitare da sola e mi mantenevo facendo la cameriera mentre studiavo all’Accademia teatrale”. Da tempo vive a Milano, in un bilocale in Ticinese. Ma, oltre alla Sardegna, dove va spesso per lunghi soggiorni, Genova rimane nel suo cuore: “è la città della mia famiglia e che sento mia”.

Nonostante la sua vita sia segnata in senso positivo dalla memoria di Faber, il cognome che porta resta per lei un elemento troppo invadente e riconoscibile: “Ho pensato anche di usare un altro nome. Ho avuto paura di non essere libera. Io non ho un piano B. Anche se è un privilegio, sento la responsabilità di un nome ingombrante”. E ora che sta per debuttare nella fiction di Manfredi, forse, ancora di più: “Il mondo chiede sempre che tu sia all’altezza di un mito. Ho visto le difficoltà di mio padre. Eppure è uno dei più grandi polistrumentisti in circolazione”. Alla fine ammette: “La cosa più difficile per me è stata far pace col bisogno di essere all’altezza. Accettarsi è un grande atto di coraggio”. Quella carezza sul pancione di sua madre incinta è stata tanto importante che ha segnato tutta la sua vita. Ma ora sente che deve trovare una sua identità di donna e artista slegata da quel cognome.

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