Assistendo allo spettacolo di Giuseppe Conte nel salotto della Gruber, assaltato dai due feroci rottweiler da guardia dell’establishment, Massimo Giannini (Gruppo Gedi-Elkan) e Monica Guerzoni (Gruppo Corriere della Serra – Cairo), ho provato a sostituirmi al leader 5S; immaginando che cosa avrebbe replicato alle non disinteressate perfidie dei suoi discussant se non fosse vincolato dalle prudenze/reticenze del ruolo. Del resto chi legge da tempo queste mie note sa che non ho mai nascosto il mio disinteressato apprezzamento per l’avvocato pugliese (a parte la sua voce nasale), che, dopo un faticoso apprendistato nel Conte I, quale presidente del Conte II considero sia stato di gran lunga il miglior premier della Seconda Repubblica.

Preciso: un signore che non ho mai incontrato di persona; e – al massimo – ero compagno di scuola del suo mentore, l’avvocato professor Guido Alpa.

Infatti giovedì sera era evidente dove volesse andare a parare, con una certa insistenza aggressiva, il duo Giannini-Guerzoni, cui Conte replicava reiterando un riferimento estremamente significativo al soggetto in nome del quale intendeva rispondere: “la mia comunità”. Ossia la consapevolezza che in questa fase storica di evaporazione della forma-partito, con tutti i suoi vincoli e le sue regole formali, la relazione organizzativa in politica risulta fondata sempre di più sul rapporto interpersonale, a base fiduciaria. Sicché le leadership – nel caso in questione quella di Giuseppe Conte – si alimentano di qualità caratteriali – lealtà, sincerità, coerenza – più che di fideismo e procedure.

Del resto, se la società postula norme, la comunità si consolida nella condivisione consuetudinaria. Ma tale legame vale anche per i due giornalisti che stringevano d’assedio Conte, i quali a loro volta appartengono a due comunità ben precise: le loro redazioni e le strategie editoriali che vi si promuovono. Ossia le scelte che accomunano tanto John Elkan che Urbano Cairo, declinate in editoriali e comparsate televisive: continuare a puntare sul Pd (Schlein o non Schlein: tanto la ragazza è soltanto un’ospite in casa d’altri) come interlocutore privilegiato di una parte significativa della business community, stante la sua comprovata “flessibilità” in materia di “scambi negoziali”; a fronte dell’insofferenza dei padroni del vapore nei confronti di un partito alieno quale il 5S; disinteressato alla frequentazione del salotto buono. Tanto meno alla cooptazione nel garden club padronale.

Da qui l’insistenza nel pretendere la trasformazione del campo largo, in cui il Pd rimarrebbe il contraente maggioritario e che bene ha funzionato nelle regionali sarde, in un’alleanza sistemica permanente. Nell’attesa che il corpo estraneo Elly Schlein venga sostituita da un gestore più affidabile. Magari uno yes-man alla Gentiloni. Diktat che Conte non intende subire in quanto presupporrebbe un’affinità antropologica ancora tutta da dimostrare con la comunità pentastellata, che intanto ha già fatto un repulisti radicale nel suo popolo (via i casi umani, via gli opportunisti voltagabbana alla Luigi Di Caio, via – soprattutto – Beppe Grillo, mitomane cacciaballe e distruttivo con il suo protagonismo irresponsabile e saturnino).

Invece il Pd ancora il suo peggio non lo ha essudato, rimanendo un interlocutore ad alto rischio. E tale resterà finché nel suo nido continueranno a schiudersi le uova di due cuculi insopportabili (per chi non intende rinunciare alla questione morale come pre-requisito di una politica realmente alternativa): i renziani “alla Tony Blair vent’anni dopo” – i Lorenzo Guerini e gli Stefano Bonaccini che insistono nella ricetta ciucca di pensare che un partito di sinistra vince ostentando politiche di destra – i dalemiani “dal tempo della Bolognina” – i Dario Franceschini e gli Andrea Orlando, che concepiscono la politica come inciucio permanente, tipo Bicamerale.

Dunque, sì ad alleanze volta per volta e in casi specifici, no a rapporti vincolanti con cattive compagnie. E se campo largo deve esserci (e dovrà esserci. Se si intende avviare un’effettiva campagna di liberazione da questa Destra non solo comunitaria ma anche familista e organizzata secondo il modello cricche e cordate). Resta ancora da appurare – qualora la fondazione del campo largo realizzasse l’effettiva rifondazione della classe politica – quanto l’operazione incontrerebbe apprezzamento nei palazzi di Gedi e CorSera.

Intanto prudenza obbliga Conte a restare nel generico, mentre i rottweiler gli abbaiano intorno. Magari cercando di metterlo in difficoltà in materia di elezioni americane. Tema su cui – appunto – prudenza suggerisce che ci si tenga sul vago; anche per verificare come ci si impiccherà Giorgia Meloni, con le sue fisime di accreditamento presso i padroni del mondo, per cui tifa Joe Biden quando il suo stesso entourage freme per Donald Trump. Se tanto mi dà tanto, sull’auspicio del prossimo inquilino della Casa Bianca, un Giuseppe Conte libero dalle bardature della diplomazia politicante rifiuterebbe un’alternativa che ci promette di saltare dalla padella alla brace. O – come dicevano i camalli della mia città – dalla m. al p. Alla fine del secolo americano.

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