di Federico Avanzi*

Probabilmente scosso dalle grandi crisi attraversate (finanziaria, debiti sovrani, pandemia, guerre), è di tutta evidenza come, soprattutto grazie al prodigarsi della Corte di Giustizia, il diritto europeo abbia finalmente imboccato la strada verso uno dei suoi interessi generali più importanti: la garanzia di adeguata protezione sociale (art. 9 TFUE).

In particolare, riguardo ai lavoratori dell’Unione, sembra aver riscoperto il valore fondante del principio d’uguaglianza (art. 2 Tue, art. 21 Cdfue), espresso attraverso una delle sue principali concretizzazioni (art. 19 Tfue) ossia la Direttiva 2000/78/CE, istitutiva di un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. Ed è proprio in tema di tutele da assicurare ai prestatori affetti da disabilità che il diritto europeo, forte del suo “primato” rispetto a quello nazionale (C. Cost. n. 67/2022), sembra aver messo in crisi una delle più risalenti e consolidate ragioni di cessazione dal rapporto di lavoro, ossia il licenziamento per cosiddetto “superamento del comporto”.

Una speciale tipologia di recesso, quella disciplinata all’art. 2110 c.c., che delegando ai Ccnl l’individuazione del periodo di conservazione del posto per il dipendente assente causa malattia, sembrava, fino a poco tempo fa, una norma di perfetto compromesso fra l’esigenza del datore di mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce, e quella opposta del lavoratore di disporre del congruo tempo per curarsi e non perdere i mezzi necessari al suo sostentamento (Cass. n. 31763/2018). Senonché, più di recente, taluni dei principi espressi in sentenze emesse dai giudici del Lussemburgo sembrano aver rotto irrimediabilmente questo duraturo equilibrio.

A cominciare dalla confermata ampiezza della nozione di handicap, mutuata dalla Convenzione Onu di New York e fatta propria dall’Ue, la quale arriverebbe a comprendere finanche la malattia, se comportante per il dipendente una limitazione di lunga durata derivante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche e che, in interazione con barriere di diversa natura, sia tale da ostacolare la sua piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale (Sentenza HK Danmark, 2013). Ma soprattutto stabilendo che un lavoratore disabile sarebbe, in genere, maggiormente esposto al pericolo di essere licenziato, poiché rispetto agli altri risulterebbe più esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, con la conseguenza che considerare quei giorni nel calcolo utile all’estromissione finirebbe col rappresentare una discriminazione indirettamente fondata sulla disabilità (Sentenza Ruiz Conejero, 2018).

Di qui, pur se pronunciate riguardo a leggi e casi inerenti ad altri Stati membri, i concetti espressi dalla Corte di Giustizia hanno iniziato a far breccia nel nostro ordinamento, inducendo sempre più dipendenti a impugnare i licenziamenti intimati per lunga malattia, lamentandone la natura discriminatoria. In sintesi della complessa battaglia giudiziaria (fra le ultime Trib. Rovereto n. 44/2023, App. Milano n. 1257/2023, Trib. Parma n. 1/2023, Trib. Bologna n. 230/2022), da una parte, le ragioni datoriali si attestano sulla mancata conoscenza, al momento del recesso, della condizione di handicap affliggente il lavoratore e, comunque, che l’applicazione del diritto “antidiscriminatorio” Ue non potrebbe mai significare l’eterno mantenimento in servizio di un soggetto non più capace all’esecuzione delle mansioni oggetto di assunzione (Considerando 17, Dir. 78/2000).

Dall’altra, assunta l’irrilevanza di qualsivoglia certificazione medica (Sentenze Commissione/Italia, 2013, Ruiz Conejero, 2018), la difesa dei lavoratori rammenta come nelle condotte “indirettamente” discriminatorie, del tutto ininfluenti siano le intenzioni dell’agente – qui il datore – rilevando unicamente l’effetto di svantaggiare il soggetto – cioè il dipendente disabile – portatore del fattore di rischio: pertanto, quale “soluzione ragionevole” (art. 5, Dir. 78/2000), essendo pure che l’assenza prolungata dovrebbe far intuire la “condizione” patita dal dipendente (Comitato Onu Diritti Persone Disabilità, 2018), l’azienda sarebbe tenuta, in ogni caso, a escludere dal computo le giornate di assenza connesse all’handicap, allungando così la permanenza in essere del contratto.

E più incline al ragionamento pro labour è sembrata anche la Corte di Cassazione che, in una prima sentenza, ha sostanzialmente confermato i profili discriminatori dell’art. 2110 c.c. (Cass. n. 9095/2023), mentre con una seconda, ammettendo in parte le ragioni datoriali, ha tentato di suggerire una possibile soluzione, evidenziando come, in realtà, sia senza dubbio possibile fissare anche per i lavoratori disabili, purché differenziandolo, un limite temporale alla conservazione del posto di lavoro, ma che una simile scelta discrezionale debba rimettersi necessariamente al legislatore o alle parti sociali per mezzo della contrattazione collettiva (Cass. n. 35747/2023).

Ma ancor più di recente, il 4 gennaio scorso, a sparigliare le carte del contenzioso è arrivato anche il Tribunale di Ravenna, il quale, dubitando degli esiti raggiunti dalla Cassazione e maggiormente considerando incertezze e oneri economici (evidenziati però con imprecisione!) sostenuti, pur in assenza di prestazione dal datore di lavoro, ha ritenuto di rimettere la questione direttamente al vaglio della Corte di Giustizia (art. 267 Tfue).

In breve, constatando che allo stato, nessun Ccnl prevede norme ad hoc per i lavoratori disabili secondo la nozione Ue, ma osservando altresì come, i lunghi periodi di tutela in essi già previsti, consentano di sostenere una loro originaria funzione di garanzia, pensata non solo in riferimento alla malattia “comune”, il magistrato ravennate pone ai giudici del Lussemburgo una serie di istanze, fra le quali se l’assenza di una disciplina “differente” a favore dei portatori di handicap sia in effetti discriminatoria e, in caso di risposta affermativa, se tale discriminazione “indiretta” possa trovare giustificazione nella finalità legittima dell’interesse datoriale di non doversi fare carico, all’infinito, del contraccolpo organizzativo cagionato dall’assenza del lavoratore.

Insomma, nell’inerzia di legislatore e sindacati nonché in attesa della Corte di Giustizia, la delicata partita su discriminazione e licenziamento ex art. 2110 c.c. sembra restare apertissima, continuando così a rendere doveroso un grande interrogativo: quale tutela all’orizzonte per i lavoratori?

*Consulente del Lavoro e titolare dello Studio Associato Toscani-Avanzi, collabora attivamente con gli studi legali per la gestione e la risoluzione, stragiudiziale e giudiziale, delle controversie in materia di lavoro

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