Diventa legge la norma-bavaglio che vuole impedire ai giornalisti di pubblicare il testo delle ordinanze di custodia cautelare. Il Senato ha approvato l’articolo 4 della legge di delegazione europea, in cui, durante il passaggio alla Camera, il deputato di Azione Enrico Costa ha fatto inserire un emendamento che delega il governo a riformare il codice di procedura penale stabilendo il divieto di “pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare fino al termine dell’udienza preliminare”, o fino alla fine delle indagini dove questa non è prevista. Al momento, invece – quantomeno dopo la riforma Orlando del 2017 – le ordinanze sono pubblicabili senza limiti. La previsione è stata contestata attraverso sit-in e manifestazioni dalle sigle di rappresentanza dei giornalisti, che la considerano un vulnus al diritto dei cittadini di essere informati. I favorevoli in Aula sono stati 96, i contrari 56: il voto segreto chiesto dal Movimento 5 stelle è stato dichiarato inammissibile. Bocciati tutti gli emendamenti soppressivi presentati dalle opposizioni. Se il governo eserciterà la delega, dunque, rimarrà consentito solo pubblicare il contenuto dell’atto, senza poterlo citare tra virgolette. “La forza persuasiva di un documento dell’autorità giudiziaria è incomparabilmente superiore alla sintesi cui saranno costretti i giornalisti, che inevitabilmente saranno soggettive. Sappiamo bene che quando sarà arrestato un potente certi giornali vicini a questa maggioranza faranno un resoconto gravemente edulcorato. Dite la verità: avete paura delle notizie che escono dalle indagini penali, quelle che mettono in luce come funziona la macchina del potere e questo vi fa perdere consenso”, ha detto in Aula il senatore M5s Roberto Scarpinato.

Subito prima, l’assemblea di palazzo Madama ha approvato il ddl Nordio con 104 voti a favore (quelli della maggioranza più Azione e Italia viva) e 56 contrari: il testo, primo e finora unico tassello della riforma penale promessa dal ministro della Giustizia, è atteso ora alla Camera per il via libera definitivo. Già mercoledì 7 febbraio era passata la norma più rilevante, l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio prevista dall’articolo 1: una scelta che – come hanno avvertito quasi tutti gli addetti ai lavori – rischia di creare ampi spazi di impunità per chi abusa del proprio potere, ponendosi in contrasto con il diritto europeo e sovranazionale. Tra la seduta di giovedì 8 e quella di martedì 13 sono passate anche il resto delle controverse previsioni del provvedimento, contenute negli articoli da 2 a 9: il depotenziamento del traffico d’influenze, i limiti alla pubblicazione delle intercettazioni (nel frattempo superati a destra dal bavaglio-Costa) l’attribuzione a un collegio di tre gip della competenza a decidere sulla richiesta di custodia in carcere, e infine l’introduzione dell’interrogatorio preventivo dell’indagato, che diventerà obbligatorio (a pena di nullità) prima di disporre qualsiasi misura cautelare per reati non violenti, se non c’è pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. In sostanza, per arrestare un presunto corrotto o tangentista i magistrati dovranno convocarlo per sentire le sue ragioni, notificandogli l’invito con almeno cinque giorni di anticipo.

Il ddl, varato a giugno dal Consiglio dei ministri, ha avuto una gestazione lunghissima: incardinato in Commissione Giustizia già a inizio agosto, è rimasto impantanato per mesi a causa delle resistenze della Lega sulla cancellazione dell’abuso d’ufficio. La scelta di abolire del tutto la fattispecie di reato – un pallino di Nordio – non piaceva, peraltro, nemmeno al Quirinale, che negli scorsi mesi ha esercitato una moral suasion rivelatasi inutile. Tra i contenuti del testo anche il divieto al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento (assoluzione, non luogo a procedere, non doversi procedere) per i reati per cui è prevista la citazione diretta a giudizio (senza l’udienza preliminare): si tratta di tutte le fattispecie punite con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, ma non solo. Nell’elenco sono comprese ad esempio anche la falsa testimonianza, la violenza o minaccia a pubblico ufficiale, la ricettazione o la truffa, che nelle ipotesi aggravate prevedono pene più alte. Su questa norma potrebbe avere qualcosa da dire la Corte costituzionale: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte dell’accusa (in quel caso per tutti i reati) era infatti già prevista dalla legge Pecorella del 2006, approvata sotto il terzo governo Berlusconi e dichiarata illegittima dalla Consulta per violazione del principio di eguaglianza tra le parti del processo.

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