di Marco D’Ercole

Anch’io, come tante persone, appartengo al mondo agricolo. Gestisco insieme a mio padre, professore universitario, l’azienda agricola di famiglia, composta da vigneti, ulivi e seminativi. La mia azienda si trova in Abruzzo.

Anch’io, come altri agricoltori, capisco la rabbia del settore. E purtroppo il colpevole non è uno solo – per i telegiornali la colpa è dell’Europa, brutta e burocrata, che tramite il Green deal vessa un settore malconcio.

Partiamo da un dato fondamentale. Quando l’Europa burocrata emette una direttiva o una legge, è espressione dei desideri dei singoli Stati. Singoli Stati che fanno pressing affinché si porti a casa più risultati possibili, a discapito di altri Stati. Queste istanze sono rappresentate in Italia dai governi nazionali, regionali e dalle associazioni di categoria. È qui per me il vero intoppo. Questi tre attori (purtroppo) hanno abbandonato da tempo la rappresentatività del popolo, pensando (molto?) maggiormente ai propri personali interessi.

Due giorni fa sono stato a una tavola rotonda degli agricoltori. Il nocciolo del problema è che l’agricoltore non può basare il suo anno fiscale sui contributi statali, ma lo dovrebbe basare su un reddito abbastanza certo – siamo sempre soggetti ai capricci del tempo. Tutte queste forme di aiuto non devono rappresentare il profitto dell’agricoltore.

Un altro problema non da poco è la gestione del Consorzio di Bonifica. La gestione dei consorzi di bonifica abruzzesi è stata fallimentare (sono 5 in Abruzzo). Gestione irrigua inefficiente per canoni salatissimi. Era presente un rappresentante della Cia e futuro presidente del Consorzio di Bonifica Vasto Sud. Come sono nominati i Consorzi di Bonifica, tutta la sala mormora. Una persona a fianco a me li definisce “carrozzoni politici che vanno totalmente riformati“. Il futuro presidente prende e se ne va. Ecco un altro vero problema degli agricoltori. Le associazioni di categoria aborrono le proteste, e non sono minimamente abituate al pensiero critico.

Invito tutti voi, lettori e redazione del Fatto, a leggere come Coldiretti e Cia si siano spartite la gestione dei Consorzi di Bonifica abruzzesi, come fosse un bottino di guerra dovuto.

Un altro problema fuoriuscito dall’incontro è la grande distribuzione e il mercato. Dettano i prezzi, ben consapevoli che gli agricoltori ottengono tra il 5 e il 15% del costo del prodotto finale.

Ieri a pranzo mi è capitato di ascoltare il Tg3 nazionale. Servizio della protesta degli agricoltori. La giornalista descrive la protesta e aggiunge che da parte italiana c’è la rappresentanza della Coldiretti. Esattamente dietro la giornalista si posizionano cinque persone con i colori dell’associazione di categoria. Ho provato un senso di rabbia profonda, perché ho interpretato tale gesto come messaggio subliminale – del tipo “dobbiamo far vedere che siamo presenti”.

Alle 17 accendo un attimo la tv, e su Tagadà la giornalista pone una domanda: “Perché la Coldiretti appoggia la protesta se tutte le istanze della stessa sono soddisfatte dal ministro dell’Agricoltura? Hanno inoltre un ottimo rapporto tra loro”. Questa è la domanda giusta. La Coldiretti non può esimersi dal non appoggiare la protesta. Mai avrebbe voluto farla. Ma se non fa vedere di non essere presente perde ciò che non è più: la sua rappresentanza di categoria.

Spezzo una lancia in favore delle associazioni di categoria. Devono esistere; e se chiude una nasce un’altra, perché le persone, esseri sociali, tendono naturalmente a riunirsi e associarsi. Ma esse, purtroppo, sono diventate centri autoreferenziali di potere, più inclini a fare accordi che convengono a loro piuttosto che al tesserato.

Ultima domanda cattivella. Perché all’interno dei villaggi Coldiretti è presente lo stand del McDonald’s?

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