Cultura

Malcolm X e Martin Luther King, in un libro (di cui vi anticipiamo l’introduzione) le storie parallele dei “ribelli” che rivoluzionarono la storia degli afroamericani

Quando leggerete Malcolm X e Martin Luther King – L’ape e la colomba, in uscita per Einaudi, e di cui FQMagazine vi offre un’anticipazione con le prime pagine del primo capitolo, capirete che la soluzione al quesito non è mai banalmente unidirezionale

di Davide Turrini

Massimalismo o riformismo? Ne ferì più la spada o la parola? Per l’emancipazione degli afroamericani negli Stati Uniti ha avuto più efficacia il nazionalismo nero da separazione delle razze del fratello musulmano Malcolm X o il pacifismo gandhiano integrazionista del pastore battista Martin Luther King? In fondo nella storia dei popoli e dei diritti socio-politici la questione è sempre la stessa. Quando leggerete Malcolm X e Martin Luther King – L’ape e la colomba, in uscita per Einaudi, e di cui FQMagazine vi offre un’anticipazione con le prime pagine del primo capitolo, capirete che la soluzione al quesito non è mai banalmente unidirezionale. Teso nell’ammirevole e onesta equidistanza umana e morale da storico super partes rispetto ai soggetti analizzati, Gianluca Briguglia, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Venezia, ne testimonia il basculante assunto. Probabile che non ci sarebbero stati passi da gigante nella società statunitense sul tema afroamericani se alle marce e ai sogni da colomba del reverendo King non fossero vissute parallelamente le adrenaliniche scosse di orgoglio dell’ape Malcolm. E viceversa.

Oltretutto proprio per capire le due inesauribili adamantine personalità del Novecento post 1945, che hanno trasformato pensiero e azione della black people statunitense, nel saggio di Briguglia vengono subito presentate con puntuale carotaggio archivistico le radici di altre quattro gigantesche influenti personalità che hanno preceduto King e Malcolm X: Frederick Douglass, Booker T. Washington, Marcus Garvey, William E. B. Du Bois. Figure monumentali vissute in quel limbo terrificante di schiavitù di ritorno che riprese piede, dopo il proclama abolizionista del 1863, dal pataracchio dell’elezione del presidente Haynes nel 1876, e che portò di fatto alla seconda fase segregazionista sancita nel 1896 dalla sentenza della Corte Suprema del “separate but equal” durata fino all’altra grande scossa degli anni cinquanta del Novecento: dal celebre rifiuto di Rosa Parks nel cedere il posto sul bus dove “spettava” a un bianco fino al Voting Right Act di Lyon Johnson nel 1965. Chi per un verso e chi per un altro Douglass, Washington, Garvey, Du Bois sollevano con veemenza le coordinate della questione razziale in forma di indipendenza culturale, economica, lavorativa, perfino commerciale e geopolitica, spingendo il pedale della differenza tra uomo nero e uomo bianco.

Sono pagine di cristallina sintesi storica che andrebbero fatte leggere a tanti pensatori del progressismo globale odierno che paiono scesi da Marte. Tornando poi ai due soggetti principali del libro, Briguglia ne delinea alcuni tratti antropologici chiave, che riescono ad illustrare di riflesso l’intera società americana. L’impianto filosofico e politico di Malcolm X e Martin Luther King si basa sulla cultura religiosa: islamica per il primo, battista per il secondo; turning point sociale dopo furti e galera dopo vent’anni di vita per il primo, tradizione da famiglia piccolo borghese il secondo; metodo formale improvvisamente rigido per il ragazzo del Nord, sorta di permeabile poliedricità per il graduale collettivismo del ragazzo del Sud. Inevitabile del resto che questo accada in una società apparentemente secolare, dove la fede spesso fai da te di congreghe e sette mitiga l’iperindividualismo istituzionalizzato.

In secondo luogo l’avvento delle figure pubbliche di Malcolm X e Marthin Luther King si inseriscono in un discorso ampio di idea di “nazione” che attraversa epoche, partiti e spazi geografici seguendo l’arrembante decolonizzazione dei paesi africani e asiatici (che è uno scontro armato tra indigeni non bianchi e colonialisti bianchi) e delle dottrine socialiste e comuniste che inevitabilmente influiscono nella trasformazione e nella spinta che le associazioni dei diritti degli afroamericani assumono in un paese in cui di fondo mai si è sviluppato un vero e proprio scontro di classe marxista o all’europea. Tanto che il pensiero di Malcolm X si trasformerà e continuerà nell’irruenza molto ideologizzata delle Black Panther e King si “impantanerà” nella critica alla guerra in Vietnam. Malcolm X e King moriranno uccisi entrambi a 39 anni: il primo nel 1965 e il secondo nel 1968.

L’ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA

L’ape e la colomba

Sembra impossibile concepire due personaggi – e due modi di agire e pensare – piú distanti tra loro come furono Martin Luther King (1929-1968) e Malcolm X (1925-1965).
Il primo è il predicatore battista del profondo Sud, dalla retorica solenne e misurata, seguace di Gandhi e della non violenza, fautore dell’integrazione razziale e dei diritti civili, sostenitore delle promesse della Costituzione americana: l’uomo del sogno.
Il secondo è il ministro della controversa Nation of Islam (Noi), molto ascoltato nelle città del Nord, con un eloquio veloce e sfidante, assertore della difesa anche violenta, nazionalista nero che propugna la separazione delle «razze» e che denuncia l’ipocrisia della democrazia americana: l’uomo dell’incubo.
C’è molto di vero in questa dicotomia: le loro linee d’azione si incardinano su due schemi antitetici e la loro stessa figura di leader è giocata in modo consapevole su due terreni diversi. In questo sono anche favoriti dalla polarizzazione con cui i media americani amavano rappresentarli fin dall’inizio e che loro, in particolare Malcolm, seppero sfruttare.
Dunque possiamo ben pensare a un Malcolm versus Martin, e viceversa, in ossequio al titolo della collana che ospita questo nostro libro; oppure possiamo caratterizzarli come l’ape e la colomba, come recita il sottotitolo, espressione che abbiamo scelto giocando volutamente con le opposizioni.
L’ape che punge, che irrita, che può fare male, cosí sembrava volersi presentare Malcolm X al pubblico dei media americani. Malcolm è il musulmano nero che punge perché denuncia l’ipocrisia di una democrazia che non è tale per tutti e che si nutre del sopruso e della violenza. Rifiuta il cristianesimo perché è la religione mistificatrice del padrone bianco che dice allo schiavo di pazientare sulla terra perché sarà libero in cielo; e rifiuta il cristianesimo per le sue rappresentazioni di un Gesú bianco, biondo e con gli occhi azzurri che con la sua sola presenza rimanda ai neri l’immagine di una loro inferiorità. «Per quanto sia persuaso dalla verità del Vangelo di Gesú, – scriverà il brillante teologo metodista afroamericano James H. Cone nel 1992, a conferma della capacità di Malcolm X di scuotere le coscienze, – sono altrettanto convinto che vivere e predicare il Vangelo di Gesú in America richieda la prova rigorosa della critica nazionalista di Malcolm».
Malcolm, inoltre, sconvolge davvero l’opinione pubblica americana alla morte di J. F. Kennedy, quando tutta l’America è in lutto, e alla domanda di un giornalista sul suo giudizio in merito a quell’omicidio, risponde «semplicemente chi la fa l’aspetti» («merely a case of chickens coming home to roost»), denunciando in modo urticante – e che gli costerà molto caro – la violenza di un sistema che si ritorce contro chi lo manovra.
Malcolm punge quando attacca i leader afroamericani del movimento per i diritti civili, primo fra tutti Martin Luther King, perché sono come degli «zio Tom», dei «negri da cortile» al servizio del sistema di potere bianco.
L’epiteto di zio Tom, che Malcolm usa molto spesso, deriva dal famoso romanzo della scrittrice bianca Harriet Beecher Stowe, La capanna dello zio Tom (1852). L’autrice fu una convinta abolizionista e il suo libro ebbe grande importanza nel mostrare le crudeltà degli schiavisti del Sud e l’insostenibilità di quel sistema disumano, contribuendo – a detta dello stesso presidente Lincoln, secondo la leggenda – a creare le condizioni per la Guerra di secessione che portò all’abolizione della schiavitú. Eppure il personaggio dello zio Tom, un afroamericano buono e forte, timorato di Dio, che vuole bene al padrone – che pur mostrandosi affezionato lo vende senza troppi scrupoli –, che rifiuta di sottrarsi alla vendita per non danneggiare il padrone, contribuisce a rilanciare una serie di luoghi comuni sugli afroamericani e a rafforzare il paternalismo nei loro confronti.
In Malcolm (ma non solo, perché l’espressione è di uso corrente), lo zio Tom è però qualcosa di peggio: rappresenta l’atteggiamento di quei neri che vogliono compiacere i bianchi, che sono integrati al loro potere e che vengono usati per tenere buono il popolo afroamericano, per impedirgli di ribellarsi e di comprendere la miseria della propria situazione. Come lo zio Tom è per Malcolm anche il «negro da cortile» dell’epoca schiavista, cioè quel nero che non lavora nella piantagione, ma vive nella casa del padrone. In questo modo si assicura dei vantaggi e si immedesima negli interessi dello schiavista, disprezzando il resto del suo popolo. È certamente a quest’immagine che si è ispirato Quentin Tarantino nel creare il personaggio di Stephen, il detestabile e traditore capo nero della servitú in Django Unchained, interpretato da Samuel L. Jackson. Per Malcolm questa figura è ancora reale, culturalmente viva e operante, incarnata niente meno che dai leader dei movimenti per i diritti civili, che secondo lui non farebbero altro che gli interessi dei bianchi.
Insomma abbiamo usato per il titolo l’immagine dell’ape, proprio per il gioco delle polarizzazioni, ma anche perché «pungente come un’ape» (oltre che «leggero nel volo come una farfalla») amava definirsi l’amico fraterno di Malcolm X, cioè Muhammad Ali.
Anche Muhammad Ali era infatti un giovane membro della Noi, e anzi era entrato nella setta pure per la presenza affascinante e protettiva di Malcolm, l’unico che nel 1964 credesse alle sue possibilità di pugile e il solo a essere presente all’incontro storico contro Sonny Liston, il 25 febbraio del 1964, che portò Clay all’inaspettato titolo di campione del mondo dei pesi massimi.
In quel momento, il ventiduenne campione del mondo si chiamava infatti ancora Cassius Clay. Poche settimane dopo, il leader della Nation of Islam, Elijah Muhammad (1897-1975) fiuterà la preda e, approfittando delle simpatie del giovane pugile per il messaggio della setta, gli darà un posto di grande visibilità nel movimento, attribuendogli subito un nome nuovo, un nome islamico: Muhammad Ali.
Purtroppo rimanevano però solo pochi mesi all’amicizia tra Malcolm X e Muhammad Ali, perché il pugile voltò dolorosamente le spalle al suo amico quando la Noi decretò la fine di Malcolm e stabilí, con le parole di Louis Farrakhan nel giornale ufficiale della setta (dicembre 1965), che «un uomo del genere merita di morire».

© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

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