È difficile non concordare con le amare considerazioni fatte spesso dalla senatrice Liliana Segre (la quale – non va mai dimenticato – a 94 anni vive sotto scorta perché minacciata di morte da neofascisti) sull’oblio a cui sarà destinata in un prossimo futuro la Shoah, oltre che sull’indifferenza annoiata che già oggi essa produce in molti. Del resto, da anni i sondaggi ci avvertono che cresce esponenzialmente in Italia (e non solo) il numero di coloro che negano o minimizzano l’Olocausto. Una percentuale irrisoria trent’anni fa che adesso arriva a sfiorare il 15%!

Perché sta accadendo questo? La risposta non è semplice. Sì tratta probabilmente dell’effetto concordante di più fattori.

In prima battuta, è difficile pensare che questo fenomeno non abbia un rapporto con la crescita costante della destra, compresa quella estrema, oggi arrivata addirittura alla guida del nostro Paese. Non ci vuole un “genio maligno” per immaginare che una parte rilevante di quell’incredibile 15% di negazionisti e affini appartenga a quell’area politico-ideologica. Tuttavia questa spiegazione da sola è insufficiente.

Molti specialisti (a partire da Valentina Pisanty) concordano nel cogliere un rapporto di proporzionalità diretta tra il crescere delle attività di promozione della memoria sullo sterminio (prima fra tutte il Giorno della Memoria del 27 gennaio, istituito nel 2005) e il costante aumento dell’indifferenza se non dell’ostilità e dell’incredulità. Come se esse si stessero rivelando addirittura controproducenti. Credo che questo apparente paradosso si spieghi non soltanto col fenomeno di crescita delle destre appena richiamato, ma anche con alcune caratteristiche delle attività commemorative, che si stanno rivelando non da oggi come dei veri e propri limiti.

In primo luogo, il fatto che esse quasi sempre ricordino la Shoah come una vicenda tragica riguardante esclusivamente gli ebrei. I quali, con sei milioni di vittime, sono stati in effetti il bersaglio largamente maggioritario dello sterminio, ma non il solo. Anche gli oppositori politici, gli zingari, gli omosessuali, i disabili fisici e psichici lo furono, con numeri anch’essi impressionanti.

In secondo luogo, il 27 gennaio viene celebrato quasi sempre come se si riferisse a un fatto storico ormai lontano, come se le cause che lo produssero appartenessero a un passato che non può più tornare. Purtroppo, lo sappiamo, le cose non stanno così. La mala pianta del razzismo (non solo l’antisemitismo ma anche, ad esempio, l’islamofobia) continua a crescere rigogliosa e a produrre i suoi effetti catastrofici. Anzi, per certi aspetti, oggi questa mala pianta è più viva e diffusa che mai; persino in un Paese, Israele, che avrebbe molti ottimi motivi per andarne immune.

Infine, un terzo limite grave delle attività commemorative della Shoah mi sembra ravvisabile nel fatto che esse puntino molto se non tutto sull’emozione e trascurino invece la conoscenza e la comprensione storiche. Per fare un solo esempio, la canonica gita scolastica ad Auschwitz raramente è organizzata in modo che possa produrre qualcosa di più, nel migliore dei casi, di un (passeggero) shock emotivo.

A tutti questi problemi, quest’anno se n’è aggiunto un altro, pesante come un macigno, a causa del conflitto israelo-palestinese e della vera e propria strage che l’esercito israeliano sta perpetrando a Gaza da oltre tre mesi, in “risposta” all’efferato assalto di Hamas il 7 ottobre 2023 (circa 25mila morti è il bilancio ad oggi). E’ più difficile commemorare con la giusta, doverosa convinzione lo sterminio di un popolo perseguitato oltre ottant’anni fa quando si è costretti a prendere atto che quello stesso popolo (grazie ai suoi governanti e al suo esercito) è diventato a sua volta persecutore implacabile, e non da oggi, di un altro popolo.

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