di Luciano Sesta*

L’ambasciata israeliana ha chiesto le dimissioni del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, “colpevole” di aver chiesto a Israele di non violare il diritto umanitario internazionale nella sua campagna di bombardamenti su Gaza. E ha aggiunto che le dichiarazioni di Guterres, secondo cui Hamas è una risposta sbagliata a un’esigenza legittima, e cioè quella di liberare le terre palestinesi occupate illegalmente da Israele, “sono immorali”. E tutto ciò nonostante Guterres avesse iniziato il suo discorso denunciando per ben tre volte le atrocità commesse da Hamas, con la precisazione che nessuna ingiustizia eventualmente subìta dai palestinesi avrebbe mai potuto “giustificare” l’uccisione di civili inermi. Che è e rimane un crimine, chiunque ne sia il responsabile.

Che il clima in cui siamo immersi ci impedisca di percepire come scioccanti le affermazioni dell’ambasciatore israeliano fa pensare. Qualcosa dev’essere andato storto se oggi, battendo i pugni sul tavolo e con il dito alzato, qualcuno può permettersi di considerare “immorale” non già la propria decisione di bombardare bambini, ma le parole di chi lo invita a non farlo. Non lo avremmo permesso a nessuna ambasciata di nessuno stato al mondo. Nessuno, per quanto ingiustamente ferito e attaccato, può rifarsi su bambini innocenti, che non sono mai un ingiusto aggressore, nemmeno qualora i loro genitori li avessero votati, gli ingiusti aggressori.

Che oggi, settant’anni dopo l’Olocausto, uno Stato ebraico possa pretendere immunità per la sua decisione di bombardare bambini indifesi la dice lunga su quanto sia difficile, anche per persone intelligenti, non avvalersi del più drammatico e perverso privilegio, quello dell’ex vittima diventata “buon” carnefice. Lo stiamo vedendo tutti: c’è come un senso di colpa nell’avanzare critiche al comportamento di un popolo che una certa “mitologia” ha elevato a Vittima per eccellenza, e dunque a soggetto che per definizione non può aver torto, perché lo ha semmai subìto. Chi soffre e ha sofferto, infatti, ha sempre ragione. Da qui la paura di essere accusati di “antisemitismo”, e la facilità con cui si accusa qualcuno di esservi ricaduto.

Ci è stato sempre detto, e viene ripetuto ogni anno nella Giornata della memoria, che ricordare la Shoah è un dovere proprio per evitare che simili orrori si ripetano. In questi giorni, in Palestina, sta accadendo l’esatto contrario: anziché agire come uno “scudo” che possa difenderne le nuove potenziali vittime, la memoria dell’Olocausto agisce come una “spada” che le trafigge “legittimamente”. È faticoso e imbarazzante ammetterlo, ma se le parole dell’ambasciatore Onu che tira le orecchie a Guterres non ci suonano irricevibili, è perché nel nostro inconscio collettivo agisce l’oscura idea della Shoah come patentino morale per nuove atrocità.

Forse è tempo di novità. Forse il dolore, il sangue e le lacrime, come avvenne fra il 1943 e il 1945, possono inaugurare non solo una più attenta sensibilità morale, ma anche una più lucida visione intellettuale. Di fronte all’orribile massacro di Gaza, che si sta consumando sotto i nostri increduli occhi, è ormai tempo di fare un più creativo sforzo culturale, provando ad andare oltre la “mitologia” dell’Olocausto, per evitare che la sua memoria, anziché impedirne la ripetizione, finisca per renderla irriconoscibile. Come sta accadendo in queste ore, in cui troviamo più persone indignate dal discorso di Guterres che dai cadaveri dei bambini che Israele ha “diritto” di sacrificare.

*docente di bioetica e filosofia morale dell’Università di Palermo
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