Che cosa c’è di marcio, per davvero, nella vicenda del Teatro di Roma? La nomina di un nuovo direttore, nella persona del regista Luca De Fusco, anche per i modi inusuali, è stata vissuta come ‘un golpetto della destra’. Sta suscitando, al di là del merito, una di quelle che oggi si chiamano bufere mediatico-politiche, e un tempo erano semplici polveroni.

Visto dalla parte dello spettatore appassionato, è evidente che la lettura semplicistica di un arrivo dei barbari di destra nei salotti buoni della cultura è assolutamente ridicola. Di marcio in Italia c’è un sistema del teatro – e in generale dello spettacolo con finanziamenti pubblici da capogiro – con poche idee e troppo uguali. E quasi sempre le stesse persone, con famiglie e consorterie, a dominare dietro e davanti al palcoscenico, nei posti di potere, sulle poltrone da regista e persino in scena. Negli anni questo sistema è andato se possibile ancora peggiorando perché le regole burocratiche hanno addirittura incoraggiato l’interscambio tra i principali poli pubblici, con la creazione di fatto di una sorta di palinsesto unico nazionale della mediocrità.

Tant’è che ogni alla fine è sempre più difficile scegliere i nomi dei migliori, per chi non ha la possibilità di andare a teatro nel resto d’Europa o di seguire gli appuntamenti ai pochi festival che sprovincializzano la scena italiana.

Non la pensa così chi fa parte in qualche modo della tribù che vive nel villaggio vicino alle tende dei capi e degli ultimi sedicenti stregoni del teatro. Un sistema chiuso, forte di un notevole indotto che l’industria culturale pubblica controlla con una certa efficienza, e che oggi, in qualche modo, funziona pure a dovere garantendo tante volte il tutto esaurito in sala.
Ha poco senso adesso entrare nel merito, nome per nome, delle scelte di direttori e di presidenti e di amministratori. Per non dire poi del valore artistico di ciascuno, tanto chiunque segue il teatro con passione può citare al volo vari nomi di talenti che fanno una fatica improba a trovare spazio nel circoletto.

Diciamo semplicemente che nessun teatro italiano può vantare un nume tutelare paragonabile, per esempio, a Lev Dodin, regista di una magistralità universalmente riconosciuta. Tra l’altro, nemmeno a Milano dove Dodin è stato spesso ospite, al Piccolo Teatro d’Europa, si è sentito questo gran clamore di solidarietà quando, poco più di sei mesi fa, gli sgherri di Putin hanno addirittura chiuso il suo Malyj di San Pietroburgo, ma questo è un altro discorso.

Non è che in Italia non ci siano più registi di una levatura culturale internazionale riconosciuta o potenziale, anzi. Non è una questione di tradizionale prevalenza del talento italiano soprattutto sulla scena (Eduardo De Filippo, Dario Fo). E’ semplicemente che nemmeno Dodin avrebbe (o ha) trovato spazio o ascolto particolari, nemmeno in epoca Franceschini – per personalizzare sul ministro che ha dominato tanti anni la scena culturale pubblica. Non sovvengono nemmeno casi di direzioni collettive innovative e internazionali, come il trio che sta per ereditare dallo svizzero Milo Rau l’Nt Gent, piccola e prestigiosa istituzione che fa eccezionalmente parte di quell’indiscussa primazia culturale della scena belga che si è espressa negli anni soprattutto attraverso una grande attenzione al sistema delle compagnie e dei talenti.

Con lungimiranza andava avviata anni fa anche in Italia questa inversione di tendenza, dal controllo burocratico delle istituzioni alla cura pubblica discreta delle compagnie e dei protagonisti indipendenti, che invece si sono ritrovati sempre più in difficoltà.

Nei commenti del dopo, pochi hanno il coraggio di ammettere che, in fondo, rispetto ad altre nomine-blitz, la scelta di De Fusco non appare poi così scandalosa o fuori luogo. De Fusco può anche non piacere particolarmente, come uomo di spettacolo, a un esperto competente come Gianfranco Capitta del manifesto, ma la nomina alternativa caldeggiata dal Pd e ben vista da una certa ‘sinistra teatrale’, quella di un collaudato funzionario ministeriale come Ninni Cuttaia, sarebbe stata ancora più riprovevole, con il secondo fine di liberare il posto al Maggio Fiorentino per l’ex direttore generale Affossa-Rai Carlo Fuortes.

Ecco, altro che liberare i talenti: ‘ci vogliono i manager’, si ripete come un ritornello anche a sinistra. Il pensiero unico è quello del post-capitalismo, il teatro è un’azienda, si dice, peccato che all’80 per cento viva di contributi pubblici…

In effetti, l’aggravante economicista s’è aggiunta a questa polvere soffocante di consorterie e camarille che dominano il nostro sistema teatrale. Lo ha detto molto bene in una recente intervista Antonio Latella, che non sarà Dodin ma è pur sempre un maestro (e che, peraltro, ha speso molto bene l’unica occasione di accomodarsi al potere che ha avuto, qualche anno fa, alla Biennale Teatro). “Oggi si parla moltissimo di numeri, è ciò che chiede il Ministero. Sono contento che i teatri oggi siano pieni, è molto importante, ma la questione per me è che cosa vogliamo far vedere agli spettatori“, ha spiegato Latella.

“Come aiutiamo a crescere e a riflettere se in ogni parte del Paese si presentano oggetti uguali uno all’altro, e non si crea la dovuta differenza e varietà? Il lockdown c’è stato in tutto il mondo; qualcosa di terribile ma anche una grande occasione. Non dovevamo più guardare i numeri e potevamo porre attenzione alle scelte. E non lo abbiamo fatto. Anzi, siamo tornati indietro perché andavano riempiti i teatri e questo vale per l’Italia come per gli altri Paesi: alla fine vince la forza del capitalismo. Ma nel nostro Paese la politica entra a gamba tesa nel teatro e questo non dovrebbe accadere, perché fa sì che la meritocrazia non conti quasi nulla”.

Articolo Precedente

Emma Bonino, caduta e rottura del femore per la leader di +Europa. “Già operata, da lunedì il recupero”

next
Articolo Successivo

Allontaniamo la politica dalla sanità. Io ho proposto le mie idee, altri sono andati avanti

next