Il virus del raffreddore umano sta mietendo vittime fra gli scimpanzé e i gorilla, provocando numerose epidemie e minacciando la sopravvivenza di queste specie già in via d’estinzione. A rilevarlo i test molecolari condotti da Tony Goldberg, epidemiologo statunitense, su Stella, una femmina adulta di quarantacinque chili, mesi dopo la sua morte, avvenuta nel Parco Nazionale di Kibale, in Uganda.

Il colpevole dell’epidemia è, dunque, il metapneumovirus umano, un comune virus che provoca ordinarie infezioni respiratorie nell’uomo. “Nonostante nell’uomo il virus non provochi gravi conseguenze, per i suoi parenti più stretti, i primati, è un killer ben noto”, ha dichiarato Goldberg, che è ricercatore dell’Università del Wisconsin-Madison. “Più del 12% della comunità a cui apparteneva Stella è morto a causa dell’epidemia, che si è verificata nel 2017”, ha aggiunto Goldberg.

I turisti che si recano a visitare queste grandi scimmie spesso violano le linee guida sulla sicurezza, non indossando maschere e superando il limite di distanza stabilito, che è di 7 metri dagli animali. Il contagio che avviene da uomo a animale, chiamato zoonosi inversa, è un fenomeno che riguarda le specie di tutto il mondo: dalle cozze contaminate dal virus dell’epatite A ai ghepardi colpiti dall’influenza A, dal parassita Giardia duodenalis trasmesso ai cani dipinti africani, Lycaon pictus, alla tubercolosi trasmessa agli elefanti asiatici. Ma, a causa della loro vicinanza evolutiva all’uomo, sono le grandi scimmie ad essere più vulnerabili alle malattie umane.

“Condividiamo oltre il 98% del nostro materiale genetico con gorilla e scimpanzé, quindi possiamo facilmente farli ammalare”, ha affermato Gladys Kalema-Zikusoka, veterinaria della fauna selvatica e fondatrice di Conservation Through Public Health, un gruppo no-profit di Entebbe, in Uganda, dedicato alla promozione della coesistenza tra uomini e animali. Per alcune popolazioni di grandi scimmie che vivono in aree protette, le zoonosi inverse sono una minaccia ancora più grave della perdita di habitat o del bracconaggio. Questo è il caso della maggior parte, se non di tutte, le comunità di scimpanzé di Kibale. In un gruppo a Kanyawara, ad esempio, patogeni respiratori come il rinovirus umano C e il metapneumovirus umano sono stati i principali responsabili della morte degli scimpanzé per oltre 35 anni, rappresentando quasi il 59% dei decessi per causa nota.

“Nonostante la gravi conseguenze in tutta l’Africa – ha detto Goldberg – il problema, rispetto ad altre questioni di conservazione, è poco studiato”. “L’informazione dell’opinione pubblica su tale condizione è altrettanto scarsa”, ha continuato Goldberg, che rimasto scosso da ciò che aveva visto a Kibale ha deciso di concentrarsi sulla ricerca di modi per ridurre il rischio che simili epidemie si verifichino in futuro. “Mi sono reso conto che non si tratta solo di qualcosa che accade di tanto in tanto”, ha detto Goldberg. “È una questione importante e dovremmo formalizzarne lo studio”, ha proseguito Goldberg.

Molti altri scienziati e conservazionisti concordano sul fatto che le malattie umane rappresentino uno dei maggiori rischi per le grandi scimmie africane. Ad oggi, sono in corso alcuni sforzi per mitigare il problema e i suoi effetti. Dopo una pausa quasi decennale, ad esempio, l’IUCN, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, sta pubblicando le sue ultime linee guida per la prevenzione delle malattie nel turismo delle grandi scimmie. Lo scorso luglio, inoltre, in Uganda si è riunito un gruppo di lavoro con l’intento di congiungere gli sforzi di scienziati, ambientalisti, sviluppatori di comunità, operatori turistici e funzionari governativi per trovare una migliore applicazione delle pratiche di turismo responsabile e stabilire una standardizzazione dei contenuti educativi per i turisti.

“Tuttavia, è necessario che tutte le parti in causa, compresi gli scienziati, prestino molta più attenzione a questi avvenimenti” ha sostenuto Fabian Leendertz, direttore dell’Helmholtz Institute for One Health di Greifswald, in Germania. “Più prove concrete abbiamo su come avviene la trasmissione e su dove sono i fattori di rischio e migliore e più precisa sarà la scelta delle misure igieniche da adottare”, ha sottolineato Leendertz. “Questo renderebbe anche più forti le argomentazioni per convincere gli operatori turistici e le altre parti interessate ad aderire a queste linee guida” ha spiegato Leendertz.

Il fenomeno della zoonosi inversa è apparso nella sua importanza nel contesto del coronavirus SARS-CoV-2, che gli esseri umani hanno trasmesso sia agli animali domestici che esotici degli zoo. Più recentemente, il SARS-CoV-2 si è diffuso nei cervi dalla coda bianca gli Odocoileus virginianus, in tutto il Nord America, fornendo al virus un nuovo serbatoio selvatico. “Lo scenario da incubo è che questo emerga come nuova variante”, ha osservato Goldberg. Molto prima che si sentisse parlare di tigri e visoni affetti da COVID-19, i ricercatori stavano osservando che lo stesso fenomeno si verificava con diverse malattie umane in decine di specie selvatiche e in cattività.

Alcune delle prime registrazioni nelle grandi scimmie furono fatte dalla primatologa britannica Jane Goodall, che nel 1966 registrò dieci scimpanzé che sembravano aver contratto il poliovirus dopo un’epidemia in una comunità umana vicina. Goodall sospettava che gli scimpanzé fossero stati contagiati dall’uomo. Ma, le prove sono arrivate solo nel 2008, quando Leendertz e i suoi colleghi hanno utilizzato tecniche molecolari per dimostrare che i virus umani erano responsabili di un decennio di gravi epidemie di malattie respiratorie negli scimpanzé del Parco Nazionale di Taï, in Costa d’Avorio. “Il lavoro è stato un campanello d’allarme”, ha evidenziato Leendertz. “. Nel 2015, l’IUCN ha pubblicato delle linee guida per il turismo con le grandi scimmie, che raccomandano alle persone di stare ad almeno 7 metri di distanza dagli animali e ai gruppi turistici di limitare le dimensioni e di escludere le persone che riscontrano problemi di salute. Le linee guida specificano, inoltre, che tutti i visitatori devono indossare maschere facciali. Sebbene queste regole siano chiare sulla carta, possono ridurre il rischio di malattie solo se vengono effettivamente applicate dalle guide e seguite dai turisti sul campo.

Lucrezia Parpaglioni

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