Il futuro dell’Asia-Pacifico si decide a Taipei. Oltre 19,5 milioni di taiwanesi sono chiamati alle urne per scegliere un nuovo presidente e rinnovare lo Yuan legislativo, il Parlamento della Repubblica di Cina, Taiwan. Un appuntamento elettorale nel cuore di una delle democrazie più libere del continente asiatico che avrà ripercussioni sugli equilibri internazionali per via del ruolo assunto dall’isola nella triangolazione con Cina e Stati Uniti.

Ombre cinesi – Dall’esito elettorale dipende infatti la direzione delle relazioni intra-stretto, dopo anni di crescenti tensioni che hanno visto la Cina di Xi Jinping intensificare la pressione militare su Taipei. Il tutto in vista di quella “riunificazione” che Xi considera una “necessità storica” e che ha ribadito durante il suo discorso di fine anno. L’assaggio più assertivo della capacità di accerchiamento cinese risale all’agosto 2022, dopo la visita a Taipei dell’allora speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi, ma anche in questi giorni precedenti al voto Pechino si è fatta sentire, tra palloni aerostatici che hanno sorvolato Taiwan e satelliti transitati attraverso la zona di identificazione aerea di competenza taiwanese. La Repubblica popolare cinese vede Taiwan come parte integrante del proprio territorio. Una provincia “ribelle” da riprendere a ogni costo, anche con la forza. Questo nonostante il Partito comunista non abbia mai governato né sull’isola principale di Taiwan né sugli arcipelaghi delle Matsu e delle Kinmen, distanti solo pochi chilometri dalla Cina continentale. La posizione del nuovo leader di Taipei rispetto a un eventuale dialogo con Pechino sarà quindi il barometro per interpretare le tensioni sullo Stretto nei prossimi anni.

Flashpoint Taiwan – A osservare con attenzione i seggi è anche Washington, che pur non riconoscendo formalmente Taiwan dal 1972, sostiene militarmente l’isola e sposa un’ambiguità strategica volta a contenere le ambizioni cinesi nel Pacifico. Per gli Stati Uniti Taiwan è un avamposto democratico da difendere sia per questioni ideologiche che prettamente economiche. Qui si tengono elezioni libere e qui sono stati approvati per la prima volta in Asia i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Ma qui si fabbrica e assembla anche il 65% dei microchip a livello globale e oltre il 90% di quelli più avanzati, tutte componenti fondamentali nella guerra per la supremazia tecnologica tra Cina e Usa.

I candidati – Sono tre i candidati in corsa per la presidenza e buona parte della loro campagna elettorale si è basata proprio sul diverso posizionamento rispetto alla Cina, anche se tutti concordano sul mantenere lo status quo (ovvero no all’unificazione ma nessuna ricerca di un’indipendenza formale). Il favorito secondo i sondaggi è Lai Ching-te (William Lai), attuale vicepresidente e membro del Partito progressista democratico (Dpp), il partito di maggioranza al potere dal 2016 della presidente uscente Tsai Ing-wen. Politico di lungo corso, si propone di mantenere la linea di Tsai, puntando su un’identità taiwanese e continuando a rafforzare i rapporti con gli Stati Uniti. Non a caso come sua vicepresidente ha scelto Hsiao Bi-khim, ex rappresentante di Taiwan a Washington popolarissima tra i giovani. Rispetto a Tsai però, considerata centrista nelle sue posizioni, Lai si è in passato dichiarato come un “lavoratore per l’indipendenza”, ovvero per un formale cambio di nome dell’isola non più come Repubblica di Cina, Taiwan ma esclusivamente come Taiwan. Durante la campagna elettorale ha quindi dovuto rassicurare i taiwanesi che l’indipendenza de facto dell’isola gli basterà una volta in carica. Rimane tuttavia il candidato più inviso a Pechino, che lo vede come un “secessionista” che ha scelto una vice già sotto sanzioni cinesi. Nell’ultimo mese poi, i social media della Rpc sono stati inondati di video che lo dipingono come un guerrafondaio da boicottare perché porterà le due sponde dello Stretto allo scontro armato.

E proprio sulla scelta tra guerra e pace si è fondata la comunicazione del ticket elettorale del candidato del Kuomintang, il partito che una volta era dei nazionalisti di Chiang Kai-shek e che ora rappresenta l’approccio più dialogante con Pechino. Il candidato del Kmt è Hou Yu-ih, ex poliziotto e sindaco di Nuova Taipei. La sua strategia è stata quella di attaccare il Dpp, accusandolo di avere aumentato il rischio di un’escalation sullo Stretto provocando inutilmente Pechino. La sua proposta incentrata su sicurezza, energia nucleare (Kmt a favore, Dpp contro) e prevenzione anti-Covid.

Per la prima volta nello storico dualismo tra Dpp e Kmt si è inserito un terzo incomodo. Si tratta di Ko Wen-je. Ex medico chirurgo ed ex sindaco della capitale Taipei, conosciuto sui social in lingua cinese come Doctor Ko, nel 2019 ha fondato il suo partito, il Partito popolare di Taiwan (Tpp). L’ascesa di Ko è dovuta al suo presentarsi come una terza via, lontana dal dualismo semplificatorio del “filocinese Kmt” e “indipendentista Dpp”. La disillusione per la politica dell’establishment dalle promesse vuote è quello che lo ha reso popolare tra la Gen Z dell’isola, insieme a una comunicazione studiata appositamente per questo target. Tra le sue proposte, l’estensione dell’assistenza sociale, aumento dei salari, politiche giovanili e l’aumento delle spese militari per la Difesa.

Previsioni post-voto “Lai è dato come favorito, ma in questo caso l’elemento identitario non è detto che basti come è successo nel 2020” spiega a ilfattoquotidiano.it Lorenzo Lamperti, unico giornalista italiano con base a Taipei. “La percezione è che dopo otto anni al potere, ci sia stanchezza nell’elettorato del Dpp”. E questo vale soprattutto per le legislative. Se Lai dovesse aggiudicarsi la presidenza, rimane comunque il rischio che si trovi azzoppato in partenza, guidando un Parlamento senza maggioranza. “Dopo la vittoria storica del 2020, chi ha votato Tsai non sempre ha votato Dpp alle legislative. Se nel Kmt la scelta tra presidente e parlamentari è la stessa, nel Dpp la forbice è più ampia e con il nuovo partito, il Tpp, in ascesa, la situazione si complica”, continua. Se invece il Kmt vincesse la presidenza, Lamperti prevede che “Pechino potrebbe temporaneamente allentare la pressione militare, aumentando però quella politica e cercando di portare avanti negoziati per un’ipotetica riunificazione”.

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