di Riccardo Bellardini

Oltre quarant’anni son passati dal dramma di Vincenzo Paparelli, tifoso laziale che il 28 ottobre 1979 perse la vita durante un derby capitolino. Un razzo partito dalla curva Sud romanista lo raggiunse in Nord, colpendolo in pieno volto, causandone, dopo momenti di tragica agonia, l’assurda morte. Non sono stati rari i casi, negli ultimi anni, di offese ripugnanti alla memoria del povero tifoso, strumentalizzato per schernire la tifoseria biancoceleste.

Proprio il caso Paparelli è forse l’esemplificazione più alta, più inequivocabile, di cosa sia il tifo violento che attanaglia il calcio italiano, una piaga che resiste, dopo tanti appelli, parole e buoni propositi susseguitisi negli anni. Ci troviamo di fronte all’ennesimo Lazio-Roma che anziché festa si tramuta in guerra. L’avranno visto i nostri politici? Avranno notato la criticità? La dissonanza tra sport e follia violenta? Spero vivamente di sì. Tra l’altro hanno pure anticipato la fine dei lavori nel palazzo per tornare a casa e guardarsi il partitone o per andare a sedere proprio allo stadio. Hanno rinunciato ad un dibattito approfondito sulla guerra in Ucraina. Una cosetta da poco, una crisi internazionale che forse ha riaperto ufficialmente la guerra fredda, ma niente di serio, in fondo.

Ad un certo punto tra distinti Sud e tribuna Tevere laterale, poco prima dell’inizio del match valido per i quarti di finale della Coppa Italia, è scoppiata la battaglia a colpi di fumogeni e petardi che volavano da una parte all’altra. Prima di entrare all’Olimpico le due fazioni s’erano scontrate, e pure dopo il fischio finale il far west è continuato all’esterno. Coltellate, quelle non mancano mai, appuntamento fisso, e stavolta un tifoso romanista è rimasto gravemente ferito, ma per fortuna non è in pericolo di vita.

Nel 2007, dopo la morte del poliziotto Filippo Raciti, in seguito ai violenti scontri di un Catania-Palermo ad alta tensione, sembrava che le cose dovessero veramente cambiare. Parevano pronte le nostre istituzioni, governative e calcistiche, a stroncare definitivamente il fenomeno delle frange ultras violente, e già ci sentivamo come gli inglesi, trionfanti contro i temibili hooligans. Ma la violenza negli stadi entra, continua ad entrare, e qui fallisce la prevenzione situazionale, che evidentemente è debole, poco incisiva. Non parliamo delle grandi misure, delle normative ad hoc da varare con nomi d’impatto, magari riferiti alla vicenda scabrosa di turno che ha fatto traboccare il vaso e che porterà finalmente alla risoluzione dell’annoso problema (che poi però rimane irrisolto, a meno di miracoli). Qui si parla dello stadio, della partita, dei controlli all’ingresso.

Entrano i petardi. Ma come entrano? I fumogeni, le mazze e le bottiglie, che in teoria ogni volta dovrebbero essere svuotate e buttate prima di passare al tornello: come passa questa roba? E poi c’è l’agente di polizia che perquisisce prima di raggiungere il settore, quindi ripeto, mi domando di nuovo: come entrano i petardi e tutto il resto? Forse le perquisizioni non sono molto efficaci? Forse il controllo dovrebbe essere potenziato? Lo stadio non è forse un luogo d’assembramento dove un folle potrebbe compiere un attentato? E se un petardo lanciato da un tifoso ne uccide un altro? La cosa è meno grave di un attentato terroristico? Meno pericolosa? Meno degna d’attenzione?

Relativamente ai tafferugli dell’ultima stracittadina, ci si affiderà alle telecamere interne per risalire ai responsabili del lancio incrociato di materiali pirotecnici. Ma prima che entrassero non si poteva far nulla? Bisogna correre il rischio di vivere un caso simile a quello di Paparelli? L’auspicio è che i nostri esimi, spettabilissimi rappresentanti prendano in mano la situazione. Per forza, è il minimo. Sono scappati dal parlamento per il derby. Avranno notato, oltre al pallone che rotolava e alle discussioni di campo, il grave e persistente problema di ordine pubblico? O servirà un altro morto?

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