Immaginatevi un sedile di una compagnia aerea low cost. Ora immaginatevi di sedervi sopra, di appoggiare i gomiti sui braccioli; cercate di mettervi comodi – attenzione, il sedile purtroppo non è reclinabile, perché ormai lo spazio è quello che è. Non è il massimo, vero? In effetti no, non è il massimo. Ora immaginate di passare lì tutta la vostra vita. Lo fareste? Azzardo una risposta che credo possa valere per il 99% delle lettrici e dei lettori: no. Sono abbastanza convinto che nessuna persona voglia restarci più di qualche ora e che sia disposta a farlo solo per la ricompensa di arrivare a destinazione, qualunque sia.

E ora: vi piacerebbe passare cinque-sei mesi completamente al buio, in un luogo angusto e umido, con poca acqua e poco cibo? Anche qui – in questo scenario da tortura – se dovessi azzardare una risposta, saprei cosa scegliere. E accettereste mai di privarvi di quella cosa – fate voi quale – che vi rende umani (inteso come appartenenti alla specie umana), che vi identifica rispetto agli altri animali e grazie alla quale esprimete, nella maniera più semplice e gratificante, la vostra natura?

C’è un percorso iniziato 200 anni fa – lento, lentissimo – che in maniera progressiva sta riconoscendo agli animali maggiori tutele (non parlo di diritti per non infilarmi in una discussione filosofica senza fine) e che ha una storia che, seppur a livello micro, ha accompagnato – qui sì – l’estensione dei diritti a uomini e donne. Per dire: mentre Charles Darwin si batteva contro la schiavitù, raccontava con soddisfazione di aver fracassato il cranio di una rarissima volpe dell’isola di Chiloé (Cile) col proprio martello da geologo. A beneficiare massimamente di questo percorso sono stati gli animali da compagnia, poco quelli selvatici, molto poco quelli destinati agli allevamenti (sto usando gli avverbi in modo grossolano, sostituiteli secondo la vostra sensibilità).

Tutto ciò premesso, c’è una pratica in uso tra i cacciatori che mi sembra così fuori dalla storia che ogni volta che mi capita a tiro (ehm, volevo dire, davanti agli occhi) mi domando come sia possibile che non sia stata ancora vietata. Sto parlando dei “richiami vivi”.

Funziona così: per il sollazzo (di questo si tratta, sparare a minuscoli uccelletti è puro e semplice sollazzo, non esiste alcuno scopo di conservazione e tutela dell’ambiente); dicevo, per il sollazzo dei cacciatori, lo Stato permette di allevare in cattività una serie di uccelli canterini, i cacciatori li comprano, li tengono per tutta la vita in gabbiette minuscole, li portano con sé dove hanno i capanni d’appostamento adeguatamente mimetizzati nei boschi, li fanno cantare, loro stanno belli comodi seduti col fucile puntato all’insù e quando gli uccelli migratori vengono attratti dai propri simili (i richiami vivi) e scendono verso terra, ecco che i nostri li fanno fuori (disperdendo nella natura un bel po’ di piombo, ma questo è un altro discorso). Pratica assurda, vero? Sì, di quei valori legati al mondo venatorio che i cacciatori vorrebbero far passare – la sfida, la fatica, il rispetto e la conoscenza dell’ambiente ecc. ecc. – non ha nulla. Ma non solo. E ora arrivo al punto.

Le allodole stanno in gabbiette delle dimensioni di 20x15x20; merlo, cesena, tordo sassello e tordo bottaccio in gabbiette di 30x25x25 (vi ricordate il sedile della compagnia low cost dell’inizio?). In primavera ed estate vengono tenuti al buio, così in autunno, quando vengono esposti alla luce per l’inizio della stagione venatoria, credono sia primavera. E cantano.

Esistono decine e decine di studi che dimostrano che gli uccelli 1) provano dolore; 2) provano dolore e sofferenza nelle gabbiette (ovvietà, alcuni ci muoiono persino); e che 3) lo stato di detenzione nelle gabbiette – per innumerevoli ragioni – non è altro che maltrattamento nei confronti di animali (articolo 544 ter del codice penale). Personalmente ho trovato molto esaustive le consulenze del medico veterinario Enrico Moriconi, del chimico ambientale e criminologo forense Massimo Tettamanti, della biologa evoluzionista Elisa Ligorio, che mettono in fila tantissime ricerche scientifiche internazionali sull’argomento, e del professor Carlo Consiglio, già ordinario di Zoologia alla Sapienza di Roma.

Ma quella che a me sembra un’ovvietà a buona parte del mondo politico e venatorio deve sembrare il capriccio di una persona che non ha niente di meglio a cui pensare. E così dai palazzi della Regione Lombardia, politici di destra e cacciatori (spesso le due cose si confondono) stanno preparando la riapertura dei roccoli, gli impianti di cattura dei migratori. Una pratica vietata dalla legge sulla caccia (157/92) e sulla quale è intervenuta l’Unione europea qualche anno fa, imponendo la chiusura degli appostamenti e sulla quale Tar e Consiglio di Stato sembravano aver messo la parola fine una volta per tutte.

Bene, vigileremo. Intanto dico a chi ha a cuore la natura e il suo equilibrio: aboliamo la pratica anacronistica dei richiami vivi.

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