Ecco i fatti come li ricapitola la Cassazione: un individuo a Brescia teneva cinque uccellini (una peppola e quattro fringuelli) “al buio, in gabbiette poggiate a terra e di dimensioni assai anguste, due di essi privi della coda o delle piume della coda, o comunque con un piumaggio che rendeva loro impossibile volare (a causa della provocata compromissione delle penne remiganti e di quelle timoniere), tutti e cinque dunque in condizioni tali da non poter volare e da compromettere la loro stessa sopravvivenza”. Si trattava, cioè, della “pratica denominata ‘chiusa’ (ossia la custodia al buio per lunghi mesi allo scopo di falsare il loro ciclo annuale in modo che una volta portati all’aria aperta, in autunno e in inverno, durante la stagione venatoria, convinti che fosse giunta la primavera, richiamassero i loro simili, per essere poi abbattuti dai cacciatori), così determinando uno stravolgimento completo della fisiologia ed etologia degli uccelli e realizzando comportamenti incompatibili con le caratteristiche etologiche della specie”.

Sulla criminosità di tale comportamento, non c’era, ovviamente alcun dubbio. Ma quale pena applicare? Quella più lieve di tipo contravvenzionale (arresto fino a un mese o ammenda da 1.000 a 10.000 euro) prevista dall’art. 727 c.p. per chi “detiene animali i condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze” oppure quella, ben più pesante, dell’art. 544ter c.p., che prevede la reclusione da tre mesi a un anno o la multa da 3000 a 15.000 euro per “chiunque, per crudeltà o senza necessità cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”; con pena aumentata della metà se ne deriva la morte dell’animale?

Ovviamente l’autore di questo misfatto sosteneva si dovesse applicare il reato meno grave (il primo) e per questo ricorreva fino alla Cassazione. Ma, come prevedibile, senza successo. Infatti la Suprema Corte, con una bella sentenza (terza sezione, n. 15453 del 13 aprile 2023), confermava l’applicabilità del reato più grave (il secondo) evidenziando, tra l’altro, la sussistenza del delitto di cui all’art. 544ter c.p., “perché non solo ‘senza necessità’ ma anche illecitamente (perché strumentalmente alla pratica proibita dell’uccellagione), il ricorrente ha sottoposto gli esemplari custoditi nelle gabbie a comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, provocando in alcuni di esse l’avulsione delle piume, tra l’altro allo scopo di utilizzarli come richiami vivi, pratica non consentita per la peppola e il fringuello”. E confermava anche che in questi casi ricorre l’aggravante della morte dell’animale che inevitabilmente sopraggiunge dopo l’allucinante trattamento cui è stato sottoposto.

Viene veramente da chiedersi come sia possibile arrivare a questo punto di crudeltà e come sia possibile tollerare ancora uno “sport” che si avvale di queste pratiche raccapriccianti. Specialmente adesso, dopo che, poco più di un anno fa, la tutela degli animali è stata formalmente inserita anche nell’ambito della tutela offerta dalla Costituzione.

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