Al redde rationem di inizio d’anno. Il ridimensionamento dei giudizi avventati, che la fine del 2023 aveva smascherato tali; oltre alle previsioni iper-atlantiste sul conflitto Mosca-Kiev rivelatesi puro wishfull thinking, pio desiderio anteposto alla realtà effettiva di totale sommovimento tellurico nel sistema-Mondo già a centralità Usa; oltre alla riconduzione a dimensioni reali di personaggi presunti titanici che ora abbandonano la scena, quali la regina del rimando Angela Merkel (che lascia in eredità ai propri estimatori in patria una Germania intrappolata nel cappio dell’energia a basso costo di un unico fornitore, la Russia) o l’osannato Migliore dei Migliori Mario Draghi, nient’altro che la maschera decisionista nell’eterna commedia dell’arte nostrana; oltre ai tanti altri casi di sopravvalutati, un capitolo che andrebbe aperto è quello sul nostro attuale premier. La puffetta mannara che, in ossequio alla sua aspirazione machista di essere appellata al maschile, chiamerò qui di seguito “Giorgio”.

Come dimenticare la glorificazione bipartisan del Meloni, a seguito della sua vittoria elettorale nel settembre 2022, quando la regina del birignao di centro-sinistra (molto centro e poco sinistra) Concita De Gregorio innalzava peana al “fuoriclasse, avercene così”, Lilli Gruber rinverdiva il suo femminismo da quote rosa e anche qualcuno dalle nostre parti si sperticava negli elogi del nuovo inquilino di Palazzo Chigi, magnificandone la qualità politica superiore, che ora liquida come imbarazzante (per dirla con un eufemismo).

Il fatto è che nel nostro Paese – a destra e a sinistra, sopra o sotto – si è sempre in spasmodica attesa dell’Uomo della Provvidenza, del mago della pioggia, dell’arrivano i nostri a bandiere spiegate; anche se poi tutti sono pronti a passare in un attimo dalla ola al pernacchio, al minimo segno di cedimento del mito di turno. Tanto che il gene degli àpoti – coloro che non se la bevono e coltivano spirito critico – è talmente raro da sfuggire perfino alle più attente rilevazioni politologiche.

Mentre, tornando al nostro/a puffetto/a, la sua totale aderenza al sentire nazionale lo porta a essere il perfetto animale che scorrazza in quelle savane dove circolano sogni un tanto al chilo, che sono le campagne elettorali. Un milieu in cui il premier ci sguazza, tanto da riproporne lo schema-caciara nelle sue quotidiane pratiche di governo. Anche perché così il ragazzo della Garbatella può attingere senza freni alla tradizione romanesca della polemica borgatara, secondo l’immortale “modello Rugantino”: “loro me ne hanno date, ma io gliene ho dette”. Un modo collaudato per seppellire brutte figure e cancellare le messe in riga più brucianti sotto la coltre dell’apparente menefreghismo da bulletto. Per cui, dopo aver mandato a dire all’Europa “che era finita la pacchia”, si passa alla degustazione di un immondo Patto di Stabilità, cucinato tra Parigi e Berlino, facendo finta di niente. E alla faccia del conclamato sovranismo “prima gli italiani” (cornuti e mazziati a Bruxelles, mentre il premier biondo se ne va al caffè con Macron e Scholz che ci hanno appena inchiappettati).

Contraffacendo date di fax per poter insultare l’odiato Conte, tirando in ballo quel Mes che lui/lei aveva votato nel 2011 da ministro del governo Berlusconi; evitando le conferenze stampa in cui non ci si può limitare alla battutaccia. E magari c’è pure chi ti sbatte in faccia la domanda scomoda. Il sempre incombente rischio “Cutro bis”, con o senza l’assistenza di Mario Sechi nella parte di Jabba the Hutt. Che si vuole evitare imbavagliando quel che resta dell’informazione non allineata a colpi di riforme capestro della stampa. Nel frattempo si adducono giustificazioni di malattie a forte sospetto di essere diplomatiche. Un po’ come i ragazzini che marinano la scuola il giorno dell’interrogazione. Alla faccia del “fuoriclasse, avercene”.

L’applicazione di un altro specifico nazionale: il travestimento teatrale, in cui l’apparenza consente di rinunciare alla sostanza. Per cui Giorgio/a “yo soy una mujer” si barcamena facendo il maschiaccio. Appunto, l’uomo forte che sottolinea la propria virilità anche con abbigliamenti ad hoc. Ossia indossando braghe loose-fitting e giacche doppiopetto. Una rivisitazione – il doppiopetto – della tenuta da caimano di Arcore, che nel suo caso significava la mascherata da cumenda brianzolo, in quella di Giorgio/a un camuffamento con pretesa di look marziale. E relativi esiti ridicoli imprevisti, riguardo a tagli e statura. Effetto involontario; che per quanto riguarda questo premier, lo candida autorevolmente al titolo di rinnovata autobiografia della Nazione. Dopo un certo Benito M. in orbace.

In attesa che l’incantamento si esaurisca definitivamente e il pubblico – pardon, gli elettori – avviino il passaggio dalla ola al pernacchio. Magari già nell’annunciato referendum sul premierato.

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