Il balletto va avanti da una quindicina di anni, considerato che la prima proroga (al 31 dicembre 2015) risale al 2009 sotto il governo Berlusconi, la successiva (al 2020) è arrivata nel 2012 con Monti e l’ultima (al 2033) nel 2018, con il Conte 1. Anche quest’anno non cambia nulla: le gare si faranno il prossimo. Il nuovo capitolo della infinita melina sulle concessioni balneari è identico ai precedenti: ancora un rinvio. Giustificato invocando le “ragioni oggettive” in presenza delle quali la legge sulla concorrenza varata nel 2022 consentiva di far slittare di 12 mesi, a fine 2024, le procedure competitive. Ma quali sarebbero gli impedimenti? Semplice: il tavolo tecnico istituito a un anno fa, a cui siedono ministeri competenti, Regioni e associazioni di categoria, non ha ancora stabilito i “criteri tecnici” per determinare se in Italia i litorali siano “risorsa scarsa” – a cui va dunque applicata la direttiva Bolkestein – oppure esistano così tante spiagge libere che è sufficiente mettere a gara quelle. Senza toccare i privilegi della lobby dei concessionari di vecchia data, che versa allo Stato canoni irrisori.

Il richiamo del cdm ai Comuni: “No alle gare” – Il governo Meloni ha messo nero su bianco le sue giustificazioni nel comunicato finale del consiglio dei ministri del 28 dicembre, in cui si legge che “è in corso una interlocuzione con la Commissione europea sui rilievi contenuti nel parere motivato” (nell’ambito della procedura di infrazione avviata nel 2020) per individuare “una soluzione che, in coerenza con l’ordinamento europeo, assicuri le necessarie certezze agli operatori economici e agli enti concedenti in merito all’affidamento dei beni demaniali marittimi”. Nel frattempo, gli enti locali vengono formalmente invitati a non assumere “iniziative disomogenee” – leggi le gare – che potrebbero avere ripercussioni negative sul sistema economico e sociale legato alle concessioni per finalità turistiche e ricreative”. Nel testo non compare però il rinvio di sei mesi (dopo le elezioni europee) per la definizione dei criteri tecnici, sollecitato dal vicepremier Matteo Salvini, che sarebbe stato in palese contrasto con la richiesta di Bruxelles di conformarsi entro due mesi al parere inviato il 16 novembre.

La mappatura con il trucco – A dire il vero il Tavolo coordinato dalla capo dipartimento della presidenza del consiglio Elisa Grande un primo documento l’ha già prodotto, a settembre. Come aveva raccontato Il Fatto Quotidiano, quella relazione considera tutto il litorale “a prescindere dalla sua morfologia”, comprese quindi scogliere e zone montuose su cui nemmeno volendo si potrebbe installare uno stabilimento. Con questo escamotage arriva alla conclusione che, stando Sistema informativo del demanio marittimo, l’Italia è dotata della bellezza di 426mila metri quadri di demanio marittimo di cui solo 77.100 occupati: il 18%. Mentre i dati regionali, per quanto incompleti, direbbero che l’occupazione è a quota 49%. Facendo una media tra i due numeri, a inizio ottobre il governo ha fatto sapere di aver riscontrato “che la quota di aree occupate dalle concessioni demaniali equivale, attualmente, al 33 per cento delle aree disponibili“. Morale: l’Italia sarebbe piena di spiagge libere e le gare si potrebbero fare solo per quelle.

La Commissione smaschera il governo – Ma il parere inviato da Bruxelles a Roma in novembre demolisce quel maldestro tentativo di sottrarre i litorali all’applicazione della Bolkestein. In 31 pagine di analisi, il commissario Ue per il mercato interno Thierry Breton contesta l’inclusione nel calcolo delle aree di costa non accessibili, delle aviosuperfici, dei porti commerciali, delle aree industriali e delle aree marine protette, che evidentemente non possono essere soggette a concessioni. Segue una serie di ulteriori rilievi che portano la Commissione a concludere come “i risultati dei lavori del “Tavolo tecnico” non siano idonei a dimostrare che su tutto il territorio italiano non vi è scarsità di risorse naturali oggetto di concessioni balneari”. E in ogni caso, per Bruxelles, “la varietà delle diverse situazioni locali non può giustificare l’imposizione di una normativa nazionale che preveda una proroga automatica generalmente applicabile a tutte le concessioni balneari in Italia, o addirittura un divieto generale di procedere all’emanazione dei bandi di assegnazione delle concessioni”. Divieto esplicitamente imposto dal decreto Milleproroghe convertito in legge all’inizio del 2023, che punta a mantenere in vigore le concessioni attuali “potenzialmente per un periodo illimitato o comunque indefinito”.

Bocciati pure i tentativi di sostenere che la proroga concessa nel 2018 sarebbe stata “concordata” con la Ue e che è necessaria per evitare “innumerevoli richieste di risarcimento” e garantire “certezza dei rapporti giuridici”: anzi, sottolinea Breton, “è piuttosto la reiterata proroga della durata delle concessioni a compromettere gravemente la certezza del diritto a danno di tutti gli operatori in Italia, compresi gli attuali concessionari, che non possono contare sulla validità delle concessioni esistenti. Contrariamente a quanto suggerisce la risposta alla lettera di costituzione in mora, la situazione giuridica è molto chiara da anni”: le proroghe sono in contrasto con il diritto Ue, come sancito dal Consiglio di Stato, anche se il massimo organo della giustizia amministrativa dovrà pronunciarsi nuovamente sull’argomento per effetto di una sentenza di Cassazione.

I Comuni in ordine sparso – Di qui, evidentemente, la scelta del governo di prendersi altro tempo per mettere a punto i famosi criteri tecnici, “richiamando” nel frattempo i Comuni a lasciare tutto com’è. Non tutti hanno ubbidito: Rimini, Ravenna e altre località della riviera romagnola hanno avviato le procedure per le gare pur prorogando, nell’attesa, le concessioni attuali fino alla fine del 2024. Così come Genova e Lecce. Altri sindaci, invece, si sono limitati alla proroga: tra gli altri Sestri Levante, Santa Margherita Ligure, Viareggio, Marina di Pietrasanta, Fiumicino, Bari, Brindisi e Taranto. Aver calciato la lattina più in là, però, non sarà sufficiente per sfuggire alle richieste della Ue. Che entro il 16 gennaio si attende che l’Italia adotti le disposizioni necessarie per conformarsi al suo parere motivato.

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