Le donne possono avere un processo equo in questo Paese quando denunciano maltrattamenti o violenze sessuali? O gli stereotipi e pregiudizi ostacolano il bisogno di giustizia delle vittime?

Il documentario Processo per stupro di Loredana Rotondo trasmesso dalla Rai nel lontano 1979, svelò agli italiani e alle italiane che cosa significava per una donna testimoniare come parte lesa in un processo per stupro. Tra risate complici dei difensori davanti ad un giudice indifferente, Fiorella, difesa da Tina Lagostena Bassi, veniva sottoposta ad una pubblica umiliazione. Schernita e aggredita da domande e commenti volti a metterne in dubbio la testimonianza perché non c’era stata reazione o un tentativo di difesa: “Signori, una violenza sessuale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. Passa la voglia a chiunque “.

Sono trascorsi 44 anni e tra le mura di un tribunale italiano risuonano le stesse domande che gli avvocati di quel lontano 1979 rivolsero a Fiorella. Sono trascorsi anche 24 anni dalla sentenza che assolse un uomo dall’accusa di stupro perché la vittima indossava i jeans e quindi, secondo i giudici, non sarebbe stato possibile sfilarli senza il suo consenso. Una sentenza che suscitò l’indignazione anche oltre oceano e portò all’iniziativa del Denim Day, giornata di lotta per affermare i diritti delle vittime di stupro, celebrata oggi, in 180 Paesi. Nel 1998 era impossibile sfilare dei jeans, nel 2023 è impossibile sfilare delle mutandine.

Sono queste le domande e le obiezioni che Silvia (nome di fantasia) si è sentita rivolgere dall’avvocata che difendeva Vincenzo Corsiglia, imputato insieme a Ciro Grillo, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria nel processo per stupro al tribunale di Tempio Pausania: ‘Perché non ha usato i denti?’ ‘Come le hanno sfilato le mutandine?’. E altre domande a raffica, peggiori.

I decenni trascorrono lentamente per le donne, ci sembrano fermi quando ad essere in gioco ci sono i loro diritti e i loro corpi. Persino il presidente della Corte Costituzionale, Augusto Antonio Barbera, appena eletto, ha dichiarato che le donne non devono essere impazienti e che la strada per la parità dei diritti ‘ha tempi che vanno rispettati’. Si deve fare ancora anticamera. Ottant’anni dalla promulgazione della Costituzione non sono abbastanza e chissà chi li decide i tempi. Anche quelli per avere processi equi e rispettosi della dignità della vittime di stupro.

La sfiducia nella giustizia è alta e lo dimostra la percentuale delle denunce per stupro che in Italia riguardano solo l’8% delle violenze sessuali subite dalle donne. La stragrande maggioranza delle vittime preferisce non rivolgersi all’autorità giudiziaria. Gli stereotipi e i pregiudizi sono ancora granitici e pesano più delle neuro scienze che hanno spiegato, da tempo, il fenomeno della tanatosi che blocca qualunque capacità di reazione nelle vittime di stupro così come il terrore di essere uccise durante la violenza le spinge ad adottare strategie di sopravvivenza anche assecondando gli stupratori. Accade la stessa cosa a coloro che cedono alle richieste di rapinatori, anche se armati di sole minacce. Ma il pregiudizio e il dubbio che la forza sia in fondo gradita alle donne (vis grata puellae) esigono la dimostrazione di aver resistito a oltranza, anche a rischio della vita.

Secoli di storia ci remano contro, insieme al mito di figure femminili come Lucrezia o Maria Goretti. Artemisia Gentileschi, nel 1600, subì la stortura dei pollici, un supplizio che doveva testare la veridicità della sua testimonianza mentre oggi, una vittima di stupro può sentirsi chiedere, come è accaduto a Silvia, se si è eccitata durante la violenza sessuale. Non possiamo che comprenderla per aver detto in aula che si sentiva svuotata e che le veniva da vomitare. La sua nausea ha toccato tantissime donne, l’abbiamo sentita affiorare alla bocca dello stomaco, attonite, quando la avvocata fuori dal tribunale per difendersi dalle critiche ha dichiarato che lo stupro non ha nulla a che fare con l’intimità.

Se un processo per violenza sessuale diventa un calvario per le vittime, se devono pagare col prezzo di una grande sofferenza psicologica la richiesta di giustizia attraversando la rivittimizzazione, allora non dobbiamo più chiederci perché le donne non denunciano.

La Cedu – Corte Europea dei diritti umani ha espresso più volte preoccupazione per la persistenza di pregiudizi e stereotipi nelle aule di giustizia italiane che ostacolano il riconoscimento della violenza e non tutelano le vittime. Tra queste quella che condannò lo Stato italiano a risarcire J.L. umiliata da una sentenza infarcita da giudizi sulle sue condotte sessuali.

Nel 2018 durante il processo per stupro ai carabinieri denunciati da due studentesse americane, i difensori prepararono una sequenza di domande invasive e umilianti. Il giudice Mario Profeta spiegò che “la legge non consente che le testimoni vengano offese, non sono consentite domande che attengono alla sfera personale, che offendono e che ledono il rispetto della persona” e fermò in più di una occasione i difensori dichiarando inaccettabili alcune domande. A Tempio Pausania non è stato così.

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