“Togliete la funzione dati mobili del vostro cellulare e inserite la modalità aereo. Siamo a meno di cinque chilometri dal confine russo e il nemico potrebbe agganciare il segnale dei telefoni. Indossate il giubbotto antiproiettile e l’elmetto e fate attenzione”. Il soldato dell’unità speciale che ci sta scortando è netto e risoluto nell’impartire gli ordini, ne vale della sicurezza di tutti. Del resto siamo davvero a portata di contatto in zona ostile. Arrivare a Vovchansk, regione di Kharkiv, significa entrare praticamente dentro l’area contesa tra russi e ucraini, non la linea del fronte, con tanto di “zona grigia” a dividere il campo di battaglia, quanto proprio il territorio di Belgorod, la provincia russa immediatamente oltre la cortina di ferro a est.

Cento chilometri più a sud, a Kupyansk, è in corso una strenua battaglia di artiglieria pesante e di piccoli guadagni di terremo da parte delle truppe di Mosca sulla sponda orientale del fiume Oskil. Lì e ad Avdiivka Kiev sta subendo, mentre qualche risultato positivo lo sta ottenendo a sud, al di là del Dnepr a Kherson. Fronti di guerra convenzionali appunto, in trincea o a sfidarsi strada per strada in città martirizzate e sbriciolate. Se Kupyansk dovesse cadere di nuovo nelle mani dei filorussi sarebbe il primo caso di riconquista di un territorio da parte di Mosca dal 24 febbraio 2022 a oggi. Lo stesso dicasi per Vovchansk, sotto assedio russo diretto dall’inizio della cosiddetta “Operazione militare speciale” annunciata da Putin all’epoca, liberata da Kiev a metà settembre 2022. Qui non ci sono postazioni belliche classiche, come nei punti poc’anzi descritti lungo i 1.400km del fronte da Vovchansk a Kherson; non ci sono trincee, obici, lanciarazzi Grad e così via. La guerra sul quadrante orientale si combatte con la tecnologia di ultima generazione, più sofisticata e a buon mercato.

La potremmo definire una guerra “leggera”, quella combattuta coi droni: la componentistica acquistata attraverso una fitta rete di intermediari e poi assemblata e manovrata sul terreno: “La mia squadra è formata da tre persone – racconta al FattoQuotidiano.it uno dei militari dell’unità speciale, un docente di storia che dopo l’inizio del conflitto ha deciso di indossare l’uniforme -. Un membro si occupa delle analisi attraverso le mappe del campo di azione, un altro osserva la presenza di mezzi corazzati o unità militari nemiche in genere e il terzo manovra il drone in remoto fino al lancio del proiettile esplosivo sull’obiettivo. I pezzi vengono acquistati in Cina e poi la rete dei volontari nel mondo fa il resto. Avremmo bisogno di più droni per garantire la protezione di questo pezzo di territorio, noi la guerra qui la combattiamo così”.

Ad ognuno il proprio compito: “A manovrare i droni con i joystick sono i soldati più giovani e in generale chi ha la passione dei videogiochi; io sono più vecchio e poco abile in tal senso e infatti mi occupo della parte cartografica. Ormai utilizziamo quasi esclusivamente droni kamikaze e non più quelli di ritorno perché i russi potrebbero seguirne il percorso e intercettarci. In ogni momento del giorno c’è almeno una squadra attiva; esistono squadre più ampie a seconda del tipo di missione. Di solito i droni base vengono lanciati da 4-5km dal target e in pochi minuti vanno a segno, ma esistono piani a medio-lungo raggio che richiedono più tempo e analisi”.

I russi, oltre ai droni, utilizzano tank e gli apparati balistici per tenere sotto scacco l’area di Vovchansk e soprattutto i circa mille abitanti rimasti (da una popolazione di circa 15mila) che ostinatamente non se ne vogliono andare: “Non pensavamo che la città potesse di nuovo finire nel mirino del nemico, spiega Tamaz Hambarashvili, capo dell’amministrazione civile di Vochansk, un colosso di origini georgiane, militare con i gradi di sindaco a tempo. Nell’ultimo mese gli attacchi russi sono aumentati e adesso temiamo per le sorti della città. Volevamo evacuare tutti, con i bambini e le famiglie ci siamo riusciti, ma i vecchi non ne vogliono sapere. I rifornimenti arrivano con difficoltà, per il cibo ci dà una mano grande World Central Kitchen, ma manca tutto il resto e se non fosse per i generatori saremmo isolati”.

A Vovchansk fino a pochi mesi fa c’era anche un ospedale, ma i bombardamenti russi lo hanno lesionato: “Non potevamo più stare lì anche per questioni di sicurezza. Il nostro ospedale era diventato un bersaglio dei russi e così ci siamo trasferiti in questa ex scuola che ormai non vede più bambini dal febbraio del 2022”. Kostyantyn Tyshchenko è il direttore dell’ospedale di Vovchansk, trasferito gioco forza nella scuola elementare di Bugaivka, una quindicina di chilometri più a ovest. Tyshchenko gira con la pistola nella fondina sotto l’ascella dal giorno in cui i russi sono ricacciati dietro la linea di confine: “Abbiamo una sola ambulanza vecchia di 17 anni per i soccorsi, ci serve carburante per alimentare i generatori che tengono in vita le apparecchiature. I pazienti devono venire in ospedale con i mashrutka (piccoli furgoni, ndr) e parte del personale, medici e infermieri, dorme e vive qui dentro perché le loro case sono state distrutte dai bombardamenti”.

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