Ognuno di noi nella sua esperienza in qualche modo si racconta e, in questa narrazione continua, partecipa al “discorso sulla salute” e quindi, inevitabilmente, al “discorso sulla malattia”. Le parole, quindi, liberate nei loro pieni significati, potrebbero dire molto più di noi e forse attivare nuove risorse e migliorare i percorsi di cura.

Nicola Gardini, scrittore e pittore, che insegna Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford, e autore di numerosi libri, ha deciso di continuare a indagare la salute e la malattia condividendo con i lettori nel suo nuovo libro Io sono salute (Ediz. Aboca) il percorso fatto negli ultimi vent’anni, in privato e in pubblico, non solo come marito, ma anche come figlio, come amico e come scrittore, con l’intenzione di aggiungere qualche spunto utile a concetti troppo spesso elusivi e controversi, nella speranza di essere di conforto per qualcuno e magari di ispirazione per altri.

Aids e letteratura – La letteratura quindi come strumento che “parla sempre di salute perché si preoccupa di spiegare la forza e la debolezza dell’essere umano, di ogni individuo umano”. Un esempio emblematico è quel tipico filone che già dagli anni ‘90 si è occupato di Aids. “Dandosi il compito di rappresentare l’Aids”, scrive Gardini, “la letteratura non ha solo espresso disperazione, rabbia e nostalgia, ma ha assolto un fondamentale compito didattico: illustrare le caratteristiche e le modalità dell’infezione e del sistema immunitario (…) E, sospesa tra elegia e informazione, la letteratura sull’Aids ha svolto alcuni compiti di grande utilità: ha creato la lingua del dolore e della perdita, stimolando l’insorgere di una coscienza civile e politica che riguardasse sia l’emergenza dell’infezione sia la realtà pura e semplice dell’eros (…) ha dato voce a migliaia di malati che non avevano alcuna possibilità di farsi sentire. Potentissimo distruttore dell’ordine personale e sociale, l’Aids ha favorito la nascita di un discorso profondamente costruttivo, spingendo a difendere la vita, la dignità e la libertà del desiderio e, alla fine, di tutte le libertà. La letteratura sull’Aids è divenuta sempre più un discorso sulla salute – perché la salute è protesta e rivendicazione”. Da questa riflessione scaturisce l’idea che “gli scrittori, in quanto creatori di immagini e di concetti, hanno il dovere di liberare l’esperienza individuale da tutte le spersonalizzazioni dei protocolli medici e dalle semplificazioni oppositive vita/morte e salute/malattia, dandosi il compito di rimettere al centro di qualunque discorso l’originalità e la particolarità di ciascun soggetto umano, risolvendo così, in una nuova armonia, l’apparente conflitto tra morte e vita”.

Una falsa contrapposizione? – La medicina e la nostra idea di salute e malattia è ancora fortemente condizionata da un modello meccanicistico ottocentesco per il quale noi siamo come una macchina che, colpiti da qualcosa di esterno, veniamo riparati dal medico/meccanico per poter rifunzionare. Questo approccio è forse il principale limite delle attuali strategie di cura e guarigione? “In una simile concezione la salute è considerata una sorta di condizione edenica di partenza, cui dover tornare e cui, magari, non poter mai tornare”, risponde al fattoquotidiano.it Gardini. “Il modello è davvero quello mitico della caduta, del passaggio dall’età dell’oro a quella del ferro, o biblico della cacciata dal paradiso. Il malato, dunque, è un ‘decaduto’, uno ‘scaduto della vita’. Occorre riformare i concetti di salute e di malattia, e considerare tutti, malati e sani, pur sempre membri del meraviglioso giardino della vita. La salute è anche un atto di volontà e di libertà, e ognuno di noi è il primo a doversene e potersene dare una”.

Salute e malattia sono quindi una falsa distinzione?
“Non sono una contrapposizione. Si può avere salute anche quando si è malati. E si può non avere salute anche quando si è sani, quando tutte le funzioni fisiologiche non presentano disturbi. La salute non ci è data: dobbiamo costruirla. Coincide con un’idea di sé, con la ricerca del proprio posto nel sistema del mondo e della natura”.

Spesso le parole usate per parlare di malattie, come il cancro, attingono al lessico militaresco: “Sta lottando contro il tumore”, “Ha vinto la guerra contro il suo male”… Lei però è contrario a queste metafore belliche.
“Sì, lo sono, e mi stupisco sempre quando le sento nella bocca della gente e dei medici stessi. Le visioni conflittuali che promuovono non aiutano a capire la complessità della condizione umana. Un’idea pacifista di malattia mostrerebbe che siamo esseri porosi, instabili, metamorfici. Se eliminiamo la logica della guerra e ci consideriamo figli del divenire, anche un malato terminale può avere ancora una salute”.

La parola come strumento di cura. Quali parole dovremmo sentirci dire dai medici?
“Anzitutto i medici dovrebbero ascoltare le nostre e capirle, e aiutarci a mantenerci padroni della nostra vita, guidando il modo in cui ne parliamo. I medici tendono a vedere le malattie, non i malati. Questo crea gravi confusioni; la comunicazione può diventare un dialogo tra sordi. Il rapporto terapeutico (che potrebbe anche non portare alla guarigione) non deve mai dimenticare la soggettività delle esperienze e l’unicità della storia personale. Nessun malato è uguale a un altro, anche se la malattia è la stessa. Un medico dovrebbe poterci dire: parlami di te”.

Sapere raccontare se stessi, soprattutto quando ci si ammala, aiuta a dare senso alla nuova condizione di vita e forse a viverla meglio. Il problema è come riuscire a trovare le parole giuste per raccontarsi, a “nutrire l’interiorità”?
“Servono medici colti ed empatici, esperti della vita, esperti del linguaggio. Così ne ho visti pochi. La Facoltà di medicina, per cominciare, dovrebbe includere esami di letteratura e di filosofia”.

Il dolore, se può essere occasione di presa di coscienza, è pur necessario toglierlo, soprattutto se è fisico.
“Il dolore, sì, va eliminato, perché distrugge la volontà di vivere. La volontà di vivere va protetta fino all’ultimo, anche quando il malato ha capito che la cosa migliore per lui è morire. Solo senza dolore anche il malato più grave può rimanere padrone del proprio pensiero e non disperarsi”.

Sappiamo ormai che la malattia è spesso conseguenza di scelte di vita e dipende molto meno da fattori genetici. Arrivare a questa consapevolezza è utile per gestire meglio le risorse di salute. A questo punto però, se ci ammaliamo, può subentrare il senso di colpa.
“Il senso di colpa è uno dei possibili modelli culturali che agiscono nella coscienza del malato. È il solito discorso: sei uscito dal paradiso, hai peccato. Certo, qualcosa forse è andato storto. Ma è così. Ora si può solo continuare a vivere o forse finalmente iniziare a farlo. Liberarsi dal rimpianto, dalla nostalgia, dall’autocommiserazione: il malato deve affrontare anche questi problemi, che gli vengono da una lunga storia culturale”.

Il suo libro si presenta nel titolo con il pronome singolare IO. Ma si scopre, sempre più dalle sue pagine, che salute, qualità della vita è frutto di un “NOI”: di chi si immedesima con la persona malata che le sta a fianco, la rete familiare, il dialogo virtuoso con i medici. Insomma, dovremmo cercare di tendere a un “Noi siamo salute”.
“È vero. La salute nasce anche dalla collaborazione, dalla solidarietà, dal rispetto che tutti i membri di una comunità portano gli uni agli altri. Noi diamo salute agli altri con l’amicizia, con l’amore e con la pace. L’IO deve tendere al NOI, e nel NOI trasfondere la sua fede nella libertà e nella volontà di vita e nella coscienza dei cambiamenti”.

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