Primo dicembre, giornata mondiale contro l’Aids. Il virus c’è, si muove e colpisce. Lo Stato tace e finge di non vederlo. In attesa della prossima pandemia

Non se ne parla, ma lui c’è ancora. Pochi lo cercano, ma lui continua a circolare. È invecchiato, quest’anno sono quarant’anni che è stato scoperto, ma continua a colpire. Secondo i dati di UNAIDS, il Programma delle Nazioni Unite contro l’Aids, sono oltre 40 milioni le persone che vivono con l’HIV in tutto il mondo, di queste 1,3 milioni sono state infettate nel 2022 e nel medesimo anno ne sono morte 630.000. Dall’inizio della pandemia sono state infettate 85,6 milioni di esseri umani e quasi la metà, 40,4 milioni, sono decedute.

Ma c’è un altro dato che dovrebbe farci riflettere: sono 30 milioni coloro che hanno accesso alla terapia antiretrovirale; considerato che le attuali linee guida indicano la necessità di iniziare in fase estremamente precoce la cura, questo significa che una persona su quattro, quasi tutte concentrate in Africa o comunque nel sud del mondo, non può curarsi. Ne è riprova che anche tra le persone in terapia, nel sud del mondo, non tutti ricevono la terapia più efficace oggi disponibile, proprio a causa della copertura brevettuale dei farmaci. Non possiamo fingere di non conoscerne i motivi: i prezzi alti dei farmaci coperti da brevetto, come avvenuto anche per il Covid www.noprofitonpandemic.eu.

Come informa il Notiziario ISS novembre 2023, in Italia nel 2022 vi sono state 1888 nuove diagnosi di HIV pari ad un’incidenza di 3,2 ogni 100.000 residenti, nell’83,9% dei casi l’infezione è avvenuta per via sessuale. Nel 2022, il 58,1% delle nuove diagnosi di infezione da HIV è stato diagnosticato tardivamente con un numero di linfociti CD4 inferiore a 350 cell/μL. Questa diagnosi tardiva sì è verificata nei 2/3 degli eterosessuali maschi e nel 60% delle donne eterosessuali. Costoro hanno quindi vissuto per anni senza sapere di essersi infettati con l’HIV e di poterlo quindi trasmettere; hanno sospettato di essere sieropositive e hanno quindi deciso di sottoporsi al test solo quando si sono manifestati i primi sintomi clinici.

Questo è un segnale preciso e preoccupante della quasi totale assenza da oltre vent’anni, nel nostro Paese, di campagne informative e di progetti di prevenzione che dovrebbero essere prioritariamente indirizzate verso le nuove generazioni, verso coloro che non hanno vissuto la fase epidemica, o all’epoca erano bambini. Infatti, l’incidenza più alta è tra le persone che oggi hanno tra i 25 e i 39 anni.

Sarebbe necessario inserire nelle scuole, ma anche nelle università, programmi di informazione sessuale a fianco dei progetti di educazione all’affettività. Ma non sarà certo semplice realizzarli con Meloni & company in un Paese dove parlare di sessualità e di profilattici è ancora un tabù, dove troppo spesso per veder rispettato il proprio diritto all’interruzione di gravidanza è necessario cambiare provincia o regione; un Paese segnato da una doppiezza morale imperante, dove il patriarcato è tutt’altro che superato e dove chi ha navigato tra Ruby e le olgettine è stato celebrato con funerali di Stato in Duomo e la sepoltura al Famedio.

L’urgente necessità di informazione emerge anche dai dati raccolti dalla Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids con i suoi oltre 15.000 contatti e 730.000 accessi annuali al sito: il 53% di chi si è rivolto a LILA per chiedere il test ha dichiarato di non aver fatto uso del profilattico e le ragioni principali di difficoltà nell’accedere ai servizi sono la richiesta di documenti, mancanza di anonimato, che invece in base alla legislazione dovrebbe essere sempre garantito, orari di apertura limitati, timori per privacy e stigma.

“Let Communities Lead”, lasciamo che siano le Comunità a guidare il cambiamento, è lo slogan scelto dall’UNAIDS per il 2023. Ed è proprio questo uno degli insegnamenti che ci ha lasciato la fase calda della lotta alla pandemia da HIV: il ruolo fondamentale che le associazioni nelle loro tantissime e differenti declinazioni hanno svolto territorio per territorio, città per città, nel contattare singoli e gruppi, scandagliando ogni angolo della società, superando barriere di ogni tipo, abbattendo stigma e discriminazioni, creando ponti verso le strutture sanitarie territoriali, ottenendo l’apertura di ambulatori, la diffusione del test, riaffermando il diritto alla cura per tutti senza alcuna esclusione.

L’intreccio tra associazionismo riconosciuto dalle istituzioni e il moltiplicarsi dei servizi sanitari territoriali in grado di stabilire ovunque stretti e credibili rapporti con le persone, è stata l’arma vincente negli anni 80 e 90. Ma di questi insegnamenti, chi ha governato la sanità negli anni successivi, ne ha fatto carta straccia e il prezzo l’abbiamo pagato durante la pandemia; ma anche da questa tragedia nessun insegnamento sembra essere stato tratto, come dimostra la gestione del Pnrr in sanità e il continuo sottofinanziamento del nostro Servizio Sanitario. “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”.

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