di Paolo

Il premier italiano si rivolge al popolo e chiede se vogliamo decidere noi o far decidere i partiti. Lo fa aprendo una campagna referendaria per votare una riforma costituzionale scritta dai partiti della sua maggioranza, che scelgono per noi la maniera in cui non dovremmo farli scegliere per noi. Logicamente viene in mente la scorsa campagna referendaria in cui si dichiarava che la riforma fosse contro la casta e i privilegi, scomodando financo “People have the power” di Patti Smith. Infatti il popolo aveva così tanto “power” che nel testo il numero di firme necessario per presentare una legge di iniziativa popolare era passato da 50.000 a 150.000.

Ma per essere corretti per ora possiamo disquisire solo della domanda posta dal capo del nostro governo, che non si limita alla decisione, ma tocca un punto interessante che è il diritto di contare, al che mi viene il dubbio che il governo attuale sia formato da forze politiche che hanno concretizzato una maggioranza grazie al voto di persone che non contano, ma che conteranno se mai voteranno la riforma.

Non è inusuale questo curioso modus operandi, se pensiamo che nell’attuale compagine: c’è chi ha rovesciato la prassi del voto ed invece di fare campagna elettorale per farsi votare ed entrare nel governo, entra in un governo per fare campagna elettorale e farsi votare.

Quindi la domanda da porsi se si vuol contare non è cosa votare, ma quante volte votare, perché sembra che le elezioni servano a costruire un risultato sempre parziale, con il quale si è fatta una maggioranza, un governo, incaricati i ministri, ma manca ancora qualcosa. Mentre lo sciopero è una cattiveria, la povertà una colpa e l’economia che arretra una chiacchiera di male lingue, ci si preoccupa che non contiamo abbastanza. Chi non vorrebbe contare di più, per esempio quelle famiglie private del reddito di cittadinanza, le imprese nei guai per i pasticci col superbonus, i precari, gli studenti, i disabili, chi non può permettersi una sanità privata e via dicendo. E’ la politica che non ci ascolta quella che ci priva del diritto di contare, non serve fare una riforma, perché il problema non è l’assetto costituzionale ma le persone che fingono di rappresentarci, quelle che dovrebbero fare dei nostri problemi i propri e portarli in Parlamento e che invece vi entrano solo per fare dei loro problemi i nostri.

Mi si dirà che la riforma serve proprio a questo, ma mi si perdonerà anche se non posso essere tranquillo dal momento che la stessa è figlia dell’attuale esecutivo, il cui capo senza problemi ha ammesso in passato di volere riforme condivise ma che farebbe comunque.

L’appello a votare un’auto-proclamata “rivoluzione”, col buon proposito di far maturare la nostra democrazia, stride con la mia idea secondo la quale una democrazia matura lo è quando una riforma la si costruisce con la più ampia trasparenza, informazione e rispetto delle parti. Non è l’esito che decide la maturità di una democrazia, perché la democrazia è matura perché decide l’esito.

Non regge inoltre l’accusa secondo la quale le altre forze politiche vorrebbero osteggiare la cosa per mero “calcolo politico”: sia chiaro, magari qualcuna lo fa, non sarebbe una novità; ma è un rimprovero flebile se a dirlo è chi ora addebita i mali di tutta l’economia a riforme di cui proponeva una proroga al tempo in cui sarebbe stato impopolare l’opposto, perché ora se lo può permettere.

Tutta questa voglia di premierato quasi all’insegna della contrizione per non aver lottato il dovuto perché noi contassimo di più, ci lascia il tempo di capire forse l’unica cosa essenziale: chi ci rammenta la necessità di contare – perché prima non contavamo – ha bisogno di contare ora, perché gli serve contare di più del necessario.

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