La terza guerra mondiale a pezzi, come l’ha chiamata Papa Francesco, dal 7 ottobre ha visto aprirsi in Israele e nella Striscia di Gaza un nuovo fronte incendiario, che peraltro covava sotto la cenere da tempo, pronto a riesplodere. L’innesco è stato il brutale massacro di civili israeliani operato da Hamas. Pura barbarie che non ha avuto pietà di bambini, donne, giovani, anziani inermi. Niente può giustificarla!

Al massacro ha fatto seguito la non meno brutale rappresaglia di Israele con bombardamenti massicci sulla Striscia di Gaza che hanno fatto e continuano a fare migliaia di vittime, colpevoli solo di vivere lì. Abbiamo visto in tv le immagini delle macerie, le famiglie in fuga con pochi fagotti, l’assalto agli scarsi aiuti alimentari internazionali di cui Israele rallenta l’ingresso a Gaza, dopo aver tagliato luce e acqua che, bontà sua, ogni tanto a sua discrezione riallaccia. Per non parlare della richiesta sgomberare anche ospedali, già allo stremo, per poter procedere a bombardare anche quelli. Che ormai operano senza elettricità, come hanno voluto denunciare medici e infermieri, manifestando con le torce accese. Ospedali che assistono ad un continuo arrivo di corpi di palestinesi feriti.

Dopo il fronte di guerra in Ucraina, i segnali di tempesta che aleggiano su Taiwan, il recente riesplodere dello scontro tra Armenia e Azerbaijan, oggi è la polveriera in fiamme del Medio Oriente che ci lascia attoniti e addolorati di fronte alle migliaia di vittime e alle distruzioni. E ci tiene col fiato sospeso per il rischio concreto che il fronte del conflitto si allarghi coinvolgendo altre aree storicamente calde in quello scacchiere, dal Libano alla Siria, all’incognita Iran.

Sono stata in Palestina e ho visto con i miei occhi cosa implichi per i Palestinesi l’umiliante regime di apartheid instaurato da Israele contro di loro. Il muro divisorio di 900 chilometri che, tra l’altro, moltiplica i controlli ai checkpoint quando i palestinesi si spostano per lavoro. Gli insediamenti illegali dei nuovi coloni israeliani che portano via terreni e acqua alle comunità palestinesi.

L’obiettivo di dare una terra agli ebrei ha creato il problema delle terre e delle case sottratte ai Palestinesi, che in quei territori già ci vivevano. Nel 1948 la nascita di Israele ha sancito per i Palestinesi la catastrofe: la Nakba, come la chiamano. Bisogna adoperarsi, come alcune comunità miracolosamente riescono a fare, per ricostruire ponti di convivenza tra quei due popoli che solo in una pace giusta possono trovare una reciproca stabile sicurezza.

Oggi l’urgenza prioritaria è arrivare al cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi. Lo chiedono insistentemente i famigliari dei civili fatti prigionieri da Hamas, che accusano apertamente Netanyahu di disinteressarsi della vita dei loro cari. Lo chiede il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, che ha detto che Gaza si sta trasformando in un cimitero di bambini. La richiesta del cessate il fuoco viene anche dal basso, come la manifestazione “Not in my name”, fatta da ebrei e non ebrei a New York, e dal rilancio del dialogo interreligioso per la tregua e una pace duratura, promosso a Bologna anche dal Presidente della Cei e inviato speciale di Papa Francesco in Ucraina e Russia, Cardinale Matteo Zuppi.

Parallelamente bisogna lavorare per aprire un nuovo percorso diplomatico – dopo il sostanziale fallimento degli accordi di Oslo – che ponga fine allo spargimento di sangue. Era stato chiaro il presidente degli Usa Joe Biden che, pur ribadendo il sostegno pluridecennale a Israele, ha invitato Netanyahu – del tutto inascoltato – a non ripetere gli errori fatti dagli Usa dopo l’11 settembre e a non farsi divorare dalla rabbia.

Senza uno scenario diplomatico, nel vuoto di iniziativa politica e nella perenne violazione da parte di Israele a danno dei Palestinesi del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’Onu che la certificano, si lascerà spazio ad altra violenza. E a pagare saranno sempre i civili. Facendo dell’obiettivo “due popoli, due Stati” un mantra inattuato.

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