Rappresentanti arabi e israeliani in tv lamentano, con toni accorati, le violenze subite, ma solo dalla propria parte. E chiedono a gran voce a noi parti terze di far propria la loro faziosità. Per esempio, il Qatar ha fatto fallire un vertice Ue-Paesi Arabi perché non voleva criticare Hamas nel comunicato finale (gravi responsabilità anche dell’Ue). La Regina Rania di Giordania, in una intervista alla Cnn, ha accusato emotivamente “l’Occidente” di “doppio standard”: peccato però che, all’indomani del pogrom del 7 ottobre, non ha speso una parola per le vittime israeliane (come il Re Abdullah II); e costringe la giornalista CNN a richiamarla sul punto. Intanto, continua il silenzio assordante di Israele sui morti civili di Gaza.

Dietro al diffuso “vittimismo a senso unico” c’è un sofisma funesto: “I crimini di Hamas contro i civili ebrei sono una normale, inevitabile conseguenza delle ingiustizie (storicamente) commesse da Israele; perciò, la responsabilità è (anche) di Israele”. E viceversa. Così, aggressori e vittime finiscono sullo stesso piano. Il sofisma si chiude affermando la presenza di latenti minacce, che giustificano nuove violenze… contro innocenti. Questa logica è penetrata in larghi strati delle opinioni pubbliche mondiali: inclusi prominenti uomini di chiesa, politici, diplomatici, ecc.

In verità, si sono anche levate voci discordanti. Ad esempio, la (timorosa e tardiva) condanna di Hamas da parte del leader palestinese Abu Mazen. O la manifestazione ebraica di Washington per l’immediato cessate il fuoco a Gaza. O ancora, gli studenti di Teheran che saltano per non calpestare la bandiera di Israele posta sullo zerbino dell’Università. Ma i talk show, a queste posizioni non danno spazio!

La tendenza a giustificare i crimini dei “nostri” con quelli degli “altri” (pregressi) è benzina sul fuoco: una macchina che produce il consenso necessario per ogni guerra. È la stessa logica di Hitler contro slavi ed ebrei (lo “spazio vitale” necessario dopo le “ingiustizie” subite a Versailles; liberarsi degli “strozzini”), di Putin in Ucraina, di Xi a Taiwan. Ma un crimine è sempre un crimine. E se non lo si isola e combatte nel proprio ambiente, nasce uno stagno ambiguo e complice in cui i criminali sguazzano. La sensazione che la terza guerra mondiale s’avvicini a grandi passi nasce non solo dal proliferare di conflitti regionali e dal coinvolgimento delle Grandi Potenze. Ma anche dal dilagare di una nuova pseudo-etica globale tristemente moralista e bellicista: rifiuto di solidarizzare con gli innocenti dell’“altra parte”; incapacità di distinguere la “legittima difesa” dalla “guerra di aggressione”; via libera generale ai Lupi di Fedro.

Su Hamas c’è poco da dire. Questi terroristi sanno, in cuor loro, che le loro azioni sono ingiustificabili davanti a Dio e agli Uomini; infatti, se ne vergognano, e negano il pogrom deliberato del 7 ottobre, farneticando di semplici “danni collaterali” (anche la Regina Rania è negazionista sui bambini israeliani decapitati da Hamas). Opponendosi alla soluzione dei “Due Popoli, Due Stati”, bloccano il processo di pace. Governano Gaza, ma si fanno scudo dei palestinesi, di cui non gl’importa nulla (“abbiamo bisogno del vostro sangue”, Ismail Haniyeh, è la loro posizione). Vogliono cancellare Israele, l’Occidente, tutto, e fare un Califfato mondiale (Erdogan applaude).

Quanto a Netanyahu, sembra un pupazzo di Hamas. È infatti evidente, anche ai bambini, che l’attacco di Hamas mirava a deragliare l’imminente storico accordo fra Israele e Arabia Saudita, che avrebbe avviato straordinarie dinamiche di pace nella regione. Ma Israele… cade sempre nella trappola! Come previsto, bombarda le postazioni di Hamas senza riguardo per la popolazione. Eppure, non era difficile premettere una operazione di “messa in sicurezza dei civili”, al doveroso attacco contro Hamas.

Se la sicurezza di lungo termine di Israele, come a noi pare ovvio, dipende dalla pace con i suoi vicini, le “battaglie” più importanti sono quelle per i cuori e le menti dei palestinesi moderati. Se questo obiettivo non entrerà stabilmente e in dosi massicce nelle strategie di Israele, il Medio Oriente resterà instabile. Ma non è solo Netanyahu a non capire. Dopo 75 anni di guerre e tragedie, con tutto il rispetto, forse Israele dovrebbe interrogarsi profondamente sulla propria cultura, e su cosa gli impedisca di disegnare strategie politiche efficaci. Lo stesso vale per i palestinesi.

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