“E’ sempre possibile affermare: ‘Mi è stata fatta violenza, e ciò mi autorizza ad agire nel segno dell’autodifesa’. Molte atrocità vengono commesse nel segno di un’autodifesa che, proprio per il fatto di garantire una giustificazione etica permanente alla rappresaglia, non conosce alcun limite e può non avere alcun limite. Questa strategia ha sviluppato un’infinità di modi per ridefinire l’aggressione come sofferenza, e quindi fornisce infinite giustificazioni per trasformare quella sofferenza in aggressione”.

Judith Butler, filosofa statunitense, ebrea e nonviolenta, scriveva queste parole nel 2005 in Critica della violenza etica: tornano alla mente in questi giorni in cui la rappresaglia illimitata è tornata ad essere paradigma dei conflitti.

Il 27 ottobre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato a larga maggioranza la risoluzione che chiedeva la “tregua umanitaria immediata, duratura e sostenuta” ai bombardamenti israeliani, “incoraggiando la creazione di corridoi umanitari”, e contemporaneamente chiedeva “il rilascio immediato e incondizionato di tutti i civili tenuti illegalmente prigionieri”. In risposta il governo israeliano lanciava il più massiccio bombardamento sul territorio di Gaza seguito all’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre, con un numero di vittime che ormai raggiunge gli 8000 palestinesi – l’equivalente del genocidio di Srebrenica – di cui oltre 3.200 bambini certificati da Save the Children. Lo stesso giorno, alla dura contestazione della risoluzione da parte dell’ambasciatore israeliano all’Onu, si aggiungevano le parole di Mark Regev, consigliere di Benjamin Netanyahu: “Hamas ha commesso crimini contro l’umanità e sentirà la nostra ira, la vendetta inizia stanotte”.

Ma la vendetta, sia quella messa in atto da Hamas contro i civili israeliani inermi sia quella del governo israeliano attraverso la rappresaglia che moltiplica le vittime civili palestinesi, è fuori dalle regole del diritto internazionale che nasce esattamente per superare il dispositivo tribale della vendetta. Esso viene aggirato con il meccanismo retorico della “nazificazione” del nemico, ancora più pregnante quando si tratta dello “stato ebraico”: “La nazificazione degli oppositori di Israele è una vecchia strategia, che mette al riparo le sue guerre e le sue politiche espansionistiche”, scrive Adam Shatz sulla London Review of Books (da Internazionale 27 ott-2 nov 2023). Del resto era fuori dal diritto internazionale e giustificata dalla medesima retorica anche l’aggressione statunitense all’Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, seppur oggi Biden sembri prendere le distanze da Netanyahu. La vendetta non solo è criminale in sé, ma prepara contro-rappresaglie in una spirale di violenza infinita da entrambe le parti, che alimenta il fuoco dell’antisemitismo e dell’islamofobia, allargando il contagio del terrorismo e della guerra.

Che la vendetta sia la strada sbagliata è chiaro anche ai parenti delle vittime israeliane di Hamas, i soli che pure sarebbero legittimati a nutrire questo tragico sentimento alimentato dal dolore. Lo riporta la giornalista israeliana Orly Noy nell’articolo Ascoltate i sopravvissuti israeliani: non vogliono vendetta, pubblicato anche in italiano su il manifesto (28/10/2023), la quale rileva che i sopravvissuti al massacro, o i cui parenti si trovano sequestrati a Gaza, stanno esprimendo sempre più opposizione all’uccisione di palestinesi innocenti. Significativa, tra le altre, la voce di Michal Halev, madre di Laor Abramov, assassinato da Hamas: «Sto pregando il mondo: fermate tutte le guerre, smettete di uccidere persone, smettete di uccidere bambini. La guerra non è la risposta. La guerra non è il modo di sistemare le cose. Questo Paese, Israele, sta attraversando l’orrore… E io so che le madri a Gaza stanno attraversando l’orrore… In mio nome, io non voglio vendetta».

Lo hanno detto anche gli ebrei newyorkesi i quali, mentre gli Usa all’Onu votavano contro la risoluzione per la tregua umanitaria, in migliaia occupavano la Grande Stazione Centrale urlando “non in nostro nome” e “cessate il fuoco”, prima di essere arrestati, nella “la più grande manifestazione di disobbedienza civile che New York abbia visto da vent’anni a questa parte”, secondo gli organizzatori di Jewish Voice for Peace.

L’unica via d’uscita si trova dunque nel superare la dinamica suicida della vendetta, lasciando spazio ai costruttori di ponti capaci di disertare la compattezza culturale e religiosa. Consiste nell’uscire dalla logica veterotestamentaria dell’occhio per occhio che “rende il mondo cieco”, come avvertiva Mohandas K. Gandhi, e fare quel salto di civiltà evocato dal cristianesimo, ma mai praticato dai governi che pure ad esso dicono di ispirarsi: “Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio”. Ovvero di non opporsi ad esso con i suoi stessi mezzi e strumenti, ma costruendone degli altri totalmente differenti, pena essere avvitati in un vortice di violenza mimetica senza fine. Dove infatti ci troviamo.

Articolo Precedente

Gaza, l’ipotesi dei due Stati ha ancora senso? Lo storico: “Soluzione più giusta. È una chimera dal ’47 anche per ipocrisie Usa e indifferenza Ue”

next
Articolo Successivo

Netanyahu sembra un pupazzo di Hamas. Ma non è il solo a cadere nella trappola

next