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Giù nella valle, Paolo Cognetti supera Le otto montagne. Scrittura in stato di grazia per la redenzione dei suoi dropout, umani e animali, della Valsesia

Giù nella valle è organizzato strutturalmente con rigore e asciuttezza in un prologo canino animale rischiosissimo, quattro capitoli in prima persona per i tre protagonisti del racconto e un epilogo poetico arboreo spiazzante, ulteriormente rischioso, ma nell’equilibrio del racconto scabianamente e creativamente riuscito

di Davide Turrini

Stavolta oltre Le otto montagne ci è andato davvero. Siamo felici per Paolo Cognetti, perché la sindrome Salinger/Holden stava insinuandosi tra non detti e mal pensati da diversi anni e con fare sinistro. Come si fa, insomma, a proseguire una carriera di autore di primissimo piano dopo aver letteralmente fatto il botto sia di pubblico (le traduzioni nel mondo e le ristampe in Italia non si contano più) che di critica (quasi tutta), con un romanzo che segna in modo decisivo il proprio articolato e lungo percorso di scrittura? La risposta, dopo il bello ed inutile La felicità del lupo (2021) e il realistico diversivo Senza mai arrivare in cima (2018), è in Giù nella valle, appena uscito per Einaudi.

Romanzo regalmente compresso (un centinaio di pagine) e privo di logorrea compositiva (un long seller che si rileggerà spesso in nemmeno un’ora), carveriano più nell’evocazione di una silhouette formale che nella sua pulsante anima ancestrale e politica, Giù nella valle è organizzato strutturalmente con rigore e asciuttezza in un prologo canino animale rischiosissimo, quattro capitoli in prima persona per i tre protagonisti del racconto e un epilogo poetico arboreo spiazzante, ulteriormente rischioso, ma nell’equilibrio del racconto scabianamente e creativamente riuscito. Il cerchio della caccia si sta chiudendo intorno a quello che sembra un lupo, o forse un cane, o ancora mezzo lupo e mezzo cane, che nel suo peregrinare tra torrenti e boschi della Valsesia di metà anni novanta assieme a una giovane cagna grigia, ha ucciso una decina di cani seminando cieco terrore e montanara cinica diffidenza.

Un prologo brutale che serve narrativamente da evocativa e ricorrente primaria sottotrama come metaforicamente per introdurre e seguire la guardia forestale Luigi e la compagna incinta Betta, abitanti meticci (lei viene da Milano e si è stabilita lì da anni) nel fondovalle e l’arrivo improvviso del fratello di lui, Alfredo, trasferitosi da anni in Canada a fare il boscaiolo. Il legame profondo e ancestrale con la montagna, e Fontana Fredda, borgo in pietra là in alto, nascosto e isolato verso le vette, è il padre dei due quasi quarantenni, bracconiere suicidatosi nel prato davanti alla propria baita dopo aver saputo di avere un cancro incurabile.

Un salto dal notaio affinché Luigi diventi proprietario unico della casa paterna, dove vicino a breve si costruirà una pista da sci, e il gioco sarebbe fatto. Ma quei piccoli tesi sommovimenti che animano cupamente la valle, con quella bestia assassina che tormenta i valligiani, fa apparentemente deflagrare l’operazione familiare. Una frattura umana e letteraria non troppo esposta, quasi una falsa pista di trama da grande bluffatore, che finisce per sanarsi su un altro piano, crepuscolare e resistenziale, quello degli uomini e delle donne intenti in una sorta di impossibile, rispettosa e mai piagnucolosa difesa dell’immensità del creato messa biecamente in discussione dalla violenza, dalla crudeltà e dal potere di altri uomini. Cognetti ripresenta il calore e lo stridore familiare di una triade fraterna con un vertice paterno come ne Le otto montagne, ma qui la arricchisce quasi cancellando l’uso del flashback e dosando nuovi innesti come il ruolo forte e cesellato di una donna di città o la profonda rotondità con cui disegna radici e dettagli per le figure dei dropout della valle. L’imprevedibile, stramba e sfuggente follia di Alfredo, che non viene ingabbiata in pallidi clichè montanari di genere, fa il paio con questo macigno dell’alcolismo estremo e connaturato nei protagonisti maschi, delineato con la lucidità di un’osservazione totalizzante mai giudicante o didascalica. Cognetti ha questo potere qui che è proprio dei migliori letterati. Far vivere le proprie pagine oltre il tempo presente, come fosse un Melville o un Hemingway, senza la necessità di aggrapparsi a riferimenti e ammiccamenti culturali che fanno salotto buono oggi. L’esposizione dei tormenti interiori dei singoli, infine, è nuda e fiera, partecipata e diretta, tra il dolente bisogno di una calda carezza e la durezza di una selvatica libertà, verso una progressiva faticosa redenzione che riposa in una grazia di scrittura infinita e commovente.

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