Dalla campagna pubblicitaria pro domo propria, ma a spese di tutti, alle indiscrezioni sui dissidi interni alla controparte, passando per proposte di pacificazione improponibili. Ne sono volati di stracci tra Mediobanca e i soci in questi mesi. Chi deve fare i conti con la spesa e le bollette non ha avuto tempo e, meno che mai, voglia di interessarsene. Ma lo scontro di potere che è andato in scena in queste settimane, con l’epilogo atteso per il 28 ottobre in assemblea, ha un valore economico fondamentale per tutti gli italiani, visto che riguarda la nomina del consiglio di amministrazione della banca che, con solo il 13,13% delle azioni, ha già dimostrato di poter controllare le Assicurazioni Generali. Cioè l’ultimo e più importante patrimonio del Paese, con un attivo di oltre 500 miliardi di euro, più di un quarto del Pil nazionale. Notevole, però, anche il valore sociologico della contesa che è molto più alto di quel che non si pensi: è lo specchio del nostro Paese ai nostri tempi. Quello che sta andando in scena in Piazzetta Cuccia ha infatti una forma medievale e una sostanza decadente: la difesa del potere feudale da parte di un feudatario che non ha più il carisma del potente, ma solo utili relazioni.

Scene già viste in questi anni, ma mai dritte al cuore dell’ex salotto buono, che non è che l’ombra di quello che fu sotto Enrico Cuccia prima e Vincenzo Maranghi poi, quando nelle stanze di Mediobanca si “faceva” l’Italia e con lei si decidevano i destini di imprese e imprenditori. Oggi a fare sistema (e salotto) sono gli ex azionisti dell’istituto: Intesa che ha rilevato la Comit e Unicredit che racchiude in sé il Credito Italiano e il Banco di Roma. Mentre a Piazzetta Cuccia rimangono essenzialmente il credito al consumo e le Generali. C’è da tempo un piano per un rilancio nella gestione di grandi patrimoni personali, il cosiddetto wealth management, ma il grande salto non è facile da soli e così la soluzione più logica sarebbe stata acquistare dalle Generali il campione del ramo Banca Generali. Un’operazione non priva di conflitti d’interesse, trattandosi di una controllata della propria controllata.

Tuttavia il fine sembra giustificare il mezzo per l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, secondo il quale il detto di Cuccia per cui le azioni si pesano, non si contano, non invecchia mai. Il “Comandante”, come lo chiama il suo amico e numero uno di Unipol “Carlone” Cimbri, gran cassiere dei denari delle coop che ha affidato il mutualismo italico nelle mani dell’ex nemico capitalista, non ha intenzione di allentare la presa mollando qualche poltrona nella sua banca come vorrebbe l’erede di Leonardo Del Vecchio. Francesco Milleri, nel nome del suo defunto benefattore, ha presentato una lista di 5 candidati al cda di Mediobanca che si sovrappone (in parte) a quella del vertice di Piazzetta Cuccia. Lui, che rappresenta quasi il 20% del capitale della banca, si sarebbe accontentato di poter scegliere un presidente indipendente, cosa che Renato Pagliaro, alla guida dell’istituto insieme a Nagel da oltre 15 anni e ricandidato con lui, non è. Ma il concetto di indipendenza è relativo in via Filodrammatici: una delle condizioni poste dal cda uscente per cedere parte delle poltrone al primo socio, era stata l’impegno degli ammessi al tavolo a non votare mai contro i consiglieri scelti dall’attuale vertice. Proposta respinta, com’era prevedibile. E così si è arrivati all’assalto del sancta sanctorum.

Nagel dal canto suo ha già dimostrato la propria tenacia nel 2022 quando, pur di non farsi sfilare da Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone il controllo del consiglio di amministrazione delle Generali, è arrivato a farsi prestare delle azioni della compagnia per avere più voti in mano. Un po’ come se uno pagasse il vicino di pianerottolo per farsi delegare e votare al posto suo all’assemblea del condominio, assicurandosi di vincere come se fosse il proprietario della maggioranza dei millesimi, pur possedendo solo un appartamento. Insomma una cosa poco sportiva. Ma soprattutto niente affatto discreta, come vorrebbe invece lo stile impresso alla casa dal banchiere siciliano che l’ha fondata.

D’altro canto che in Mediobanca non si accettino intrusioni è così da sempre. Ne sanno qualcosa le ex dinastie che la banca privata italiana per eccellenza ha prima spinto al timone delle punte di diamante tricolori e poi detronizzato senza troppi giri di parole. Carlo Sama, genero di Serafino Ferruzzi e cognato di Raul Gardini raccontava quest’estate a Sette che “Mediobanca e i suoi alleati intervennero, dato che volevano ad ogni costo gestire la ristrutturazione del gruppo Ferruzzi, ma a modo loro. Nel giugno del 1993 decisero, quindi, con applicazione immediata, l’improvviso blocco di tutti i conti correnti, attivi e passivi, delle principali società del nostro gruppo. I fratelli Ferruzzi furono messi all’angolo e praticamente obbligati a firmare in esclusiva a Mediobanca il mandato di ristrutturazione del gruppo Ferruzzi. Ma Mediobanca non ristrutturò nulla, il suo fu un piano di liquidazione del gruppo e un esproprio della famiglia Ferruzzi”.

I fratelli Ligresti non direbbero cose molto differenti a proposito del traghettamento della FonSai e delle proprietà dell’anziano Salvatore nelle braccia di Unipol, che grazie a quell’operazione del 2012 è uscita dalle secche e ha scalato la montagna del successo. Oggi, grazie ai buoni uffici del “Comandante” Nagel, si è trasformata in una holding che oltre alle assicurazioni, controlla una banca in espansione mentre ne scala un’altra e ha in mano le tipiche partecipazioni del salotto buono: un pizzico di editoria, un pugno di Mediobanca, una spolverata di sanità e perfino una manciata di Elon Musk via Twitter. Insomma, in un decennio la finanziaria delle Coop è andata ben oltre la visione di Giovanni Consorte al quale sarebbe bastata la “sola” Bnl per entrare nella stanza dei bottoni. Merito di Piazzetta Cuccia, che con il colpo da maestro di Nagel si è assicurata il rientro di crediti miliardari e un alleato fedele che ha aiutato negli anni a rafforzarsi e ad acquisire credibilità. E questo nonostante Unipol sia concorrente della partecipata più preziosa della banca d’affari milanese, la solita Generali.

La versione di Mediobanca e Unipol è un’altra e parla degli sperperi dei figli di don Salvatore. La cui detronizzazione alla vigilia delle nozze con Unipol fu però determinata dalla dichiarazione di fallimento delle holding Imco e Sinergia che controllavano Premafin e, a cascata, FonSai. Le due casseforti secondo le banche creditrici non valevano niente: finanza a parte, possedevano dei terreni a Milano con relativi progetti edili. Su quei terreni oggi, a distanza di un decennio, sorgono i palazzi più cari della città, con l’ultima arrivata in piazza Gae Aulenti, la torre Unipol, che ha messo il sigillo sulla distanza ormai siderale tra le coop e quella che fu la compagnia di via Stalingrado a Bologna. Tutto dimenticato, come le gite della signora Furcolo in Nagel in elicottero con Giulia Ligresti a spese di Premafin o i suoi pranzi alla Risacca con la sorella minore Jonella.

Cose impensabili ai tempi della proverbiale discrezione di Cuccia che, si racconta, avrebbe fatto letteralmente sparire dalle librerie del centro di Milano la sua prima biografia (non autorizzata) scritta dal giornalista Fabio Tamburini (“Un siciliano a Milano”, Longanesi 1992) e addirittura, si disse dopo la sua morte, non avrebbe neanche voluto essere ricordato dai necrologi sul Corsera. Quel che è certo è che per evitare clamori fu sepolto dopo una cerimonia per pochi intimi, mentre alle esequie del suo successore, Maranghi, ci fu una lista di persone non gradite, nella quale spiccava il nome di Nagel che pure era stato il pupillo del defunto. Altri tempi e a causa di altre battaglie, certo. Come quella che riporta alla memoria un altro defunto e un altro necrologio, quello di Cimbri per Del Vecchio che nel suo messaggio di cordoglio definì il patron della Luxottica “imprenditore visionario e lungimirante, simbolo in tutto il mondo del saper fare italiano”.

Eppure non gli era parso tanto lungimirante quando, nel 2018, l’ex Martinitt paziente dell’istituto cardiologico Monzino (come Cuccia), aveva messo a punto un piano di trasformazione del polo sanitario milanese Ieo-Monzino in un centro d’eccellenza europeo che passava per una donazione da mezzo miliardo e l’utilizzo dell’ultimo gruppo di terreni della famiglia Ligresti, che Del Vecchio aveva comprato da Unicredit e da altre banche creditrici del costruttore. “Lo Ieo – gli aveva mandato a dire il numero uno del gruppo Unipol, forse sottostimando le risorse del patron della Luxottica – non può dipendere per il futuro da una generosità di soggetti che oggi hanno risorse e che domani potrebbero non averne abbastanza”. E poi, aveva aggiunto Cimbri svalutando il progetto, l’Istituto europeo di oncologia “non fa gestione di immobili, di parchi, ma la cura dei malati per la ricerca”. Parole incaute, se è vero quel che si dice oggi e cioè che la battaglia di Del Vecchio prima e di Milleri poi, sia nata proprio in quell’occasione di 5 anni fa che, va detto, era stata trattata (dagli altri soci) come un’invasione del sancta sanctorum del salotto in versione sanitaria, con l’azionariato dello Ieo che rispecchiava quello di Mediobanca e del Corriere della Sera e divieti di accesso degni di un club esclusivo, più che di un ospedale. Se poi a fare da sponda a Del Vecchio era stata Unicredit e c’erano di mezzo dei terreni dei Ligresti, impossibile aspettarsi qualcosa di buono, dev’essere stato il ragionamento.

Vallo a dire al professor Bartorelli, cardiologo di Del Vecchio e figlio del fondatore del Monzino, che arrivò a scrivere una lettera aperta al Corriere della Sera per dire che “in questa situazione in cui sembrano esserci delle difficoltà interne alla compagine societaria ad accogliere il piano di Leonardo del Vecchio, i medici e i ricercatori del Monzino si sentono in dovere di rompere il loro tradizionale riserbo per invitare il Consiglio di Amministrazione a raggiungere rapidamente un accordo che dia via libera a un progetto eccezionale e irrinunciabile di sviluppo, dal quale i primi a trarre vantaggio sarebbero i pazienti e i loro familiari”. L’appello è rimasto inascoltato e successivamente il dottore ha lasciato l’istituto, ma il solco è stato tracciato. E oggi, ironia della sorte, a far da ago della bilancia accanto alle Poste in salsa meloniana, c’è anche la cassa di previdenza dei medici, l’Enpam, che ha appena comprato l’1,2% di Mediobanca e si presenterà in assemblea. Chissà se punterà al nuovo o al mantenimento dello status quo.

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