L’invasione di Hamas, con il massacro di civili innocenti che è seguito, è un gravissimo crimine di guerra che deve essere condannato con decisione. Il contesto nel quale questo crimine è stato commesso è quello di una guerra civile che ha alternato massacri reciproci.

Le origini del conflitto sono chiare, mentre le prospettive future sono incerte. La situazione si trascina dalla nascita dello Stato di Israele ed era perfettamente nota ai primi sionisti, che sul problema palestinese avevano due opposte visioni. Ber Borochov, sindacalista e vicino al comunismo internazionale riteneva probabile che “i fellahin in Palestina siano i diretti discendenti delle popolazioni rurali ebree e canaanite” e che fossero quindi facilmente integrabili nello Stato ebraico; lo stesso pensava David Ben Gurion, un socialista moderato.

Di tutt’altro avviso erano i sionisti di destra: Zeev Jabotinski nel 1923, quindi ben prima della seconda guerra mondiale e della Shoah, scriveva: “Non ci può essere accordo volontario tra noi e gli arabi della Palestina. Non ora né nel prevedibile futuro. […] Ogni popolazione indigena […] considera la sua terra come la sua casa e vuole esserne il solo padrone; rifiuterà di ammettervi non solo nuovi padroni ma anche nuovi partner o collaboratori. […] Noi non possiamo offrire nessun compenso adeguato agli Palestinesi in cambio della Palestina stessa. […] La colonizzazione Sionista deve fermarsi oppure procedere senza riguardo alla popolazione nativa. Questo significa che può procedere e svilupparsi soltanto sotto la protezione di un potere che sia indipendente dalla popolazione nativa – dietro un muro di ferro che la popolazione nativa non possa superare”.

Le idee dei sionisti di sinistra furono inizialmente preferite: ad un primo nucleo di Palestinesi, che si trovavano all’interno dei confini dello stato del 1948, fu concessa la cittadinanza. Nelle guerre successive però lo stato di Israele conquistò nuovi territori ai cui abitanti, anche loro arabi palestinesi, non fu concessa la cittadinanza. I territori rimangono a tutt’oggi un’area con uno status unico nel mondo, controllati da Israele ma sede dei “coloni” oltre che di una popolazione araba con diritti limitati e governata dall’Autorità Palestinese, o, nella striscia di Gaza, da Hamas.

Che i Palestinesi fossero o non fossero descendenti delle popolazioni ebree di epoca preromana, quello che conta è che, come prevedeva Jabotinski, si opposero alla colonizzazione sionista, anche perché lo Stato di Israele rifiutava di riconoscerli. Il dilemma israeliano era ed è molto semplice: riconoscendo come cittadini i Palestinesi dei territori, gli Ebrei non sarebbero più maggioranza e lo Stato non sarebbe più ebraico.

Restavano soltanto due opzioni: il muro di ferro di Jabotinski, o lo scambio di territori in cambio di pace, con la nascita di due nazioni indipendenti. Ytzhak Rabin tentò la seconda strada e fu insignito del premio Nobel per la pace, insieme con Shimon Peres e Yasser Arafat; ma fu assassinato da un estremista religioso ortodosso ebreo che riteneva sacrilega la concessione della terra promessa ai Palestinesi, che pure l’avevano abitata per almeno tredici secoli dalla conquista araba, se non da epoche preromane. Dopo Rabin andò al governo prevalentemente la destra di Sharon e poi di Benjamin Netanyahu, il cui padre, Benzion Netanyahu era stato il segretario personale di Jabotinski. Non sorprendentemente la destra adottò la politica del muro di ferro, tanto più che per raggiungere la maggioranza in Parlamento doveva ricorrere ai voti dei partiti dei religiosi ortodossi più intransigenti.

Purtroppo il muro di ferro non è una soluzione: Jabotisnki pensava che un accordo coi Palestinesi fosse raggiungibile solo con la forza, ma neppure lui era chiaro su quali ne dovessero essere i termini. Sharon e Netanyahu non tentarono neppure di negoziare accordi: costruirono il muro intorno a Gaza e promossero la colonizzazione dei territori. Di fatto il loro ragionamento era: se mantenere l’estensione territoriale dello Stato richiede una guerra permanente, ben venga la guerra permanente perché noi siamo i più forti. Questo ragionamento rivela oggi tutta la sua fragilità: non c’è muro di ferro che sia invalicabile, come ha dimostrato Hamas coi suoi bulldozer, e anche l’esercito più forte può essere colto di sorpresa.

Le rappresaglie contro la popolazione civile sono inaccettabili e condannano chi le commette; ma in Israele si fanno da entrambe le parti, e Gaza è un lager a cielo aperto. L’azione di Hamas è moralmente inaccettabile, ma è anche vero che ai Palestinesi non era stata lasciata nessuna opzione moralmente accettabile. L’Onu ha sempre premuto per la soluzione dei due Stati, quella che Rabin aveva cercato di imporre; è dubbio che sia possibile realizzarla, anche per pressioni esterne in senso contrario. L’attacco di sabato scorso impone di trovare una strada, che non può essere l’invasione militare di Gaza con ulteriori e più grandi stragi di civili.

Una parziale soluzione potrebbe essere quella di offrire ai palestinesi di Gaza la possibilità di trasferirsi in paesi stranieri, Italia inclusa, come rifugiati politici, sia per sgravare la sovrappopolazione di Gaza, sia per ridurre il terreno sul quale Hamas può prosperare.

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